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I geni guidano la costruzione delle proteine

Nel capitolo precedente abbiamo visto come si duplica il DNA. Ora dobbiamo spiegare come questa molecola agisce nell’organismo, determinando le caratteristiche del suo fenotipo. Agli inizi del Novecento gli scienziati avevano scoperto che le differenze fenotipiche, anche di grossa portata, derivavano da differenze in determinate proteine. Tutti gli studi dimostravano dunque una stretta relazione tra geni e proteine. Esaminiamo ora brevemente gli esperimenti che hanno evidenziato queste relazioni.

Esperimenti sulla muffa del pane hanno chiarito la relazione fra geni ed enzimi

Gli scienziati che indagano su un fenomeno biologico spesso cercano organismi modello che, oltre a mostrare il fenomeno in esame, siano anche facili da coltivare in laboratorio o da osservare in natura. Nei capitoli precedenti abbiamo incontrato vari esempi di organismi modello, fra i quali la pianta di pisello (P. sativum) ed E. coli.

A quest’elenco dobbiamo ora aggiungere la comune muffa del pane, Neurospora crassa. Neurospora è una muffa appartenente ai funghi pluricellulari che vanno sotto il nome di ascomiceti; è facile da coltivare e cresce bene in laboratorio. Inoltre per gran parte del ciclo vitale è aploide, il che rende immediata l’interpretazione genetica dei risultati, non essendoci rapporti di dominanza-recessività.

I genetisti americani George W. Beadle ed Edward L. Tatum ipotizzarono che l’espressione di un gene sotto forma di fenotipo potesse avvenire tramite un enzima, questa idea li portò a vincere il premio Nobel per la medicina nel 1958. Beadle e Tatum fecero crescere Neurospora su un terreno di coltura minimo dal punto di vista nutrizionale, cioè contenente soltanto saccarosio, sali minerali e una vitamina. Partendo da questo terreno, gli enzimi dei ceppi selvatici di Neurospora erano capaci di catalizzare tutte le reazioni metaboliche necessarie a fabbricare i costituenti chimici delle cellule.

Beadle e Tatum sottoposero un ceppo selvatico di Neurospora a un trattamento con raggi X, che agiscono da agenti mutageni (ovvero provocano mutazioni). Quando esaminarono le muffe trattate, trovarono che alcuni ceppi mutanti non erano più in grado di svilupparsi sul terreno minimo, ma potevano farlo se si aggiungeva una sostanza nutritiva. Questi mutanti avevano subito mutazioni nei geni che codificano gli enzimi impiegati per sintetizzare quelle sostanze nutritive.

Per ciascun ceppo Beadle e Tatum furono capaci di individuare il composto che, aggiunto al terreno minimo, bastava a sostenerne la crescita. Da ciò si poteva dedurre che le mutazioni avessero un effetto semplice e che ogni mutazione danneggiasse un solo enzima della via metabolica. Tale conclusione è diventata famosa come l’ipotesi «un gene, un enzima» (▶figura 1). Oggi conosciamo centinaia di esempi di malattie ereditarie nelle quali un gene difettoso determina come effetto un errore nella produzione di uno specifico enzima. Spesso sappiamo anche quale specifico gene ne sia il responsabile.

Figura
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Figura 1open

Un gene, un enzima

Beadle e Tatum studiarono alcuni mutanti arg di Neurospora crassa. I vari ceppi mutanti arg necessitano dell’aggiunta di diversi composti al terreno di coltura per poter sintetizzare l’amminoacido arginina, necessario per la crescita. Nella figura è ricostruito il ragionamento che portò alla formulazione dell’ipotesi «un gene, un enzima».

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I geni guidano la costruzione delle proteine

Di solito un gene determina la costruzione di un singolo polipeptide

Alla luce delle attuali conoscenze di biologia molecolare, la relazione gene-enzima ha subito alcune modifiche. Innanzitutto oggi sappiamo che i geni sono sequenze di nucleotidi in una molecola di DNA. In secondo luogo, non tutte le proteine che influiscono sul fenotipo sono enzimi. Oltre a ciò, spesso le proteine, compresi molti enzimi, possiedono una struttura quaternaria: sono composte cioè da varie catene polipeptidiche.

L’emoglobina, per esempio, contiene quattro catene polipeptidiche, due di un tipo e due di un altro. In questo caso ogni catena polipeptidica è specificata da un gene distinto; perciò, anziché dire «un gene, un enzima» è più giusto usare l’espressione «un gene, un polipeptide». In altre parole, la funzione di un gene è il controllo della produzione di un singolo polipeptide specifico.

Il gene non costruisce direttamente il polipeptide, ma fornisce le informazioni che la cellula «traduce» producendo la catena polipeptidica corrispondente. Per questo si dice che il gene «si esprime» producendo un singolo polipeptide. Questa affermazione è valida per la maggior parte dei geni, ma non ha valore universale: alcuni geni si esprimono in altro modo, per esempio controllando altre sequenze di DNA. I geni che determinano la produzione di un polipeptide rappresentano comunque il livello fondamentale di controllo dello sviluppo della cellula.

Nel prossimo paragrafo vedremo come si esprimono tali geni, partendo dalle osservazioni fatte dallo stesso Crick dopo la scoperta della struttura del DNA.


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