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Come si dimostra che i geni sono fatti di DNA?

Nel film Jurassic Park due scienziati riescono a produrre un tirannosauro partendo dal DNA estratto da un insetto conservato nell’ambra che, in vita, aveva succhiato il sangue del dinosauro. Anche se è molto improbabile che il DNA si conservi inalterato per milioni di anni, questa storia ha portato all’attenzione del grande pubblico l’idea che il segreto della vita è contenuto nel DNA. All’inizio del Novecento, i genetisti avevano già stabilito una relazione fra i geni e i cromosomi; la ricerca cominciò quindi a focalizzarsi su quale fosse esattamente la componente chimica dei cromosomi che conteneva il materiale genetico.

Le basi molecolari dell’ereditarietà

La scoperta dell’esistenza del materiale ereditario risale al 1869, quando il medico svizzero Friedrich Miescher scoprì, all’interno dei nuclei dei globuli bianchi, la presenza di una sostanza ricca di fosfato che denominò nucleina.

Negli anni Venti del Novecento gli scienziati divennero consapevoli che i cromosomi erano fatti di DNA (la nucleina di Miescher) e proteine; non c’era però alcun indizio che chiarisse il ruolo svolto da queste sostanze nella trasmissione delle informazioni genetiche. I biologi partivano dal presupposto che il materiale genetico dovesse possedere precise proprietà:

  • deve essere presente in quantità differenti a seconda della specie;
  • deve avere la capacità di duplicarsi;
  • dev’essere in grado di agire all’interno della cellula regolandone lo sviluppo.

L’attenzione dei biologi era concentrata soprattutto sulle proteine per tre ragioni:

  1. sono biomolecole che presentano una grande varietà di strutture e funzioni specifiche;
  2. sono presenti non solo nei cromosomi, ma anche nel citoplasma dove svolgono diverse funzioni chiave;
  3. è dimostrato che malattie genetiche e mutazioni determinano come effetto una variazione nella produzione di proteine specifiche.

Grazie a due serie fondamentali di esperimenti, condotte una sui batteri e l’altra sui virus, nella prima metà del Novecento è stato possibile dimostrare che il materiale genetico non è costituito dalle proteine, ma dal DNA.


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Come si dimostra che i geni sono fatti di DNA?

Il «fattore di trasformazione» di Griffith è il materiale ereditario

Nel 1928 il medico inglese Frederick Griffith stava studiando il batterio Streptococcus pneumoniae o pneumococco, uno degli agenti patogeni della polmonite umana: lo scopo di Griffith era sviluppare un vaccino contro questa malattia che al tempo, prima della scoperta degli antibiotici, mieteva molte vittime. Griffith stava lavorando con due diversi ceppi di pneumococco (▶figura 1):

  • Il ceppo S (smooth, in inglese «liscio») era costituito da cellule che producevano colonie a superficie liscia. Essendo ricoperte da una capsula polisaccaridica, queste cellule erano protette dagli attacchi del sistema immunitario dell’ospite. Se iniettate in topi di laboratorio, esse si riproducevano e provocavano la polmonite (il ceppo quindi era virulento).
  • Il ceppo R (rough, in inglese «ruvido») era costituito da cellule che producevano colonie con superficie irregolare. Queste cellule erano prive di una capsula protettiva e non erano virulente.

Griffith inoculò in alcuni topolini degli pneumococchi S uccisi dal calore e osservò che i batteri erano disattivati, cioè incapaci di produrre l’infezione. Quando però Griffith somministrò a un altro gruppo di topi una miscela di batteri R vivi e batteri S uccisi dal calore, con sua grande meraviglia, notò che gli animali contraevano la polmonite e morivano. Esaminando il sangue di questi animali, Griffith lo trovò pieno di batteri vivi, molti dei quali dotati delle caratteristiche del ceppo virulento S; egli concluse che in presenza degli pneumococchi S uccisi, alcuni degli pneumococchi R vivi si erano trasformati in organismi del ceppo virulento S.

La trasformazione non dipendeva da qualcosa che avveniva nel corpo del topo, perché fu dimostrato che la semplice incubazione in una provetta di batteri R vivi insieme a batteri S uccisi dal calore produceva la stessa trasformazione. Alcuni anni dopo, un altro gruppo di scienziati scoprì che la trasformazione delle cellule R poteva essere prodotta anche da un estratto acellulare di cellule S uccise dal calore (un estratto acellulare contiene tutti gli ingredienti delle cellule frantumate, ma non cellule integre).

Questo dimostrava che una qualche sostanza, all’epoca chiamata fattore di trasformazione, estratta da pneumococchi S morti poteva agire sulle cellule R provocando un cambiamento ereditario. A quel punto rimaneva solo da individuare la natura chimica di questa sostanza.

Figura 1
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La trasformazione genetica di pneumococchi non virulenti

Gli esperimenti di Griffith dimostrarono che una sostanza presente nel ceppo S virulento poteva trasformare i batteri non virulenti del ceppo R in una forma letale; ciò accadeva anche quando i batteri del ceppo S erano stati uccisi con il calore.

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Come si dimostra che i geni sono fatti di DNA?

L’esperimento di Avery rivelò che il fattore di trasformazione è il DNA

Il riconoscimento del fattore di trasformazione ha costituito una tappa fondamentale nella storia della biologia, raggiunta con fatica da Oswald Avery e dai suoi collaboratori. Essi sottoposero i campioni contenenti il fattore di trasformazione dello pneumococco a vari di trattamenti per distruggere tipi diversi di molecole (proteine, acidi nucleici, carboidrati e lipidi) e controllarono se tali campioni trattati avevano conservato la capacità di trasformazione.

L’esito fu sempre lo stesso: se si distruggeva il DNA del campione, l’attività di trasformazione andava persa, ma ciò non avveniva quando si distruggevano le proteine, i carboidrati o i lipidi (▶figura 2). Come tappa finale Avery isolò del DNA praticamente puro da un campione che conteneva il fattore di trasformazione dello pneumococco e dimostrò che esso provocava la trasformazione batterica. Oggi sappiamo che durante la trasformazione avviene il trasferimento del gene preposto all’enzima che catalizza la sintesi della capsula polisaccaridica dello pneumococco.

Il lavoro di Avery e del suo gruppo ha rappresentato una pietra miliare nel percorso per stabilire che il materiale genetico delle cellule batteriche è il DNA. Tuttavia, quando fu pubblicato nel 1944 non fu accolto come meritava, e questo per due ragioni. La prima è che molti scienziati pensavano che il DNA fosse chimicamente troppo semplice per essere il materiale genetico, specialmente se confrontato con la complessità chimica delle proteine. La seconda, e forse più importante, ragione è che la genetica batterica costituiva un campo di studio nuovo: ancora non si era neppure del tutto certi che i batteri possedessero geni.

Figura
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La trasformazione genetica mediante DNA

Gli esperimenti condotti da Avery hanno dimostrato che la sostanza responsabile della trasformazione genetica negli esperimenti di Griffith corrisponde al DNA degli pneumococchi virulenti del ceppo S.

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Come si dimostra che i geni sono fatti di DNA?

Gli esperimenti di Hershey e Chase hanno confermato che il materiale genetico è il DNA

Le incertezze relative ai batteri furono superate quando i ricercatori riconobbero i geni e le mutazioni. Batteri e virus, infatti, sembravano andare incontro a processi genetici simili a quelli delle drosofile e dei piselli. Per scoprire la natura chimica del materiale genetico furono dunque progettati esperimenti scegliendo di usare questi sistemi relativamente semplici.

Nel 1952 i genetisti statunitensi Alfred Hershey e Martha Chase pubblicarono un lavoro che ebbe una risonanza immediata molto maggiore di quello di Avery. L’esperimento di Hershey e Chase, teso a stabilire se il materiale genetico fosse il DNA o le proteine, fu eseguito su un virus che infetta i batteri. Questo virus, detto batteriofago T2, è composto da poco più che un cuore di DNA impacchettato in un rivestimento proteico (▶figura 3), proprio i due materiali all’epoca maggiormente sospettati di essere il materiale genetico.

Quando un batteriofago T2 attacca un batterio, una parte del virus (ma non tutto il virus) penetra nella cellula batterica. Circa 20 minuti dopo l’infezione, la cellula va incontro a lisi e libera decine di particelle virali. Evidentemente il virus è in qualche modo capace di riprodursi all’interno del batterio. Hershey e Chase ne dedussero che l’ingresso di una qualche componente virale agisse sul programma genetico della cellula batterica ospite, trasformandola in una fabbrica di batteriofagi. Si accinsero quindi a stabilire quale parte del virus, la proteina o il DNA, penetra nella cellula batterica. Per rintracciare le due componenti del virus lungo il suo ciclo vitale, i due ricercatori le marcarono con isotopi radioattivi selettivi:

  • Le proteine contengono zolfo (negli amminoacidi cisteina e metionina), un elemento che non compare nel DNA. Lo zolfo presenta un isotopo radioattivo, 35S. Hershey e Chase fecero sviluppare il batteriofago T2 in una coltura batterica contenente 35S, in modo da marcare con questo isotopo radioattivo le proteine delle particelle virali risultanti.
  • Il DNA è ricco di fosforo (nell’ossatura desossiribosio-fosfato), un elemento normalmente assente nelle proteine. Anche il fosforo presenta un isotopo radioattivo, 32P. Così i ricercatori fecero sviluppare un altro lotto di T2 in una coltura batterica contenente 32P, in modo da marcare con questo isotopo radioattivo il DNA virale.

Usando questi virus marcati con isotopi radioattivi, Hershey e Chase eseguirono i loro esperimenti (▶figura 4). In un primo esperimento, i ricercatori lasciarono che i batteri venissero infettati da un batteriofago marcato con 32P e in un secondo esperimento da un batteriofago marcato con 35S. Dopo pochi minuti dall’infezione, le soluzioni contenenti i batteri infettati furono prima agitate in un frullatore, in modo abbastanza energico da staccare dalla superficie batterica le parti del virus che non erano penetrate nel batterio (ma non così tanto da provocare la lisi del batterio), poi furono sottoposte a centrifugazione per separare i batteri.

Se si centrifuga ad alta velocità una soluzione o una sospensione, i soluti o le particelle sospese si separano secondo un gradiente di densità: i residui del virus (cioè le parti che non sono penetrate nel batterio), che sono più leggeri, rimangono nel liquido surnatante; le cellule batteriche, che sono più pesanti, si addensano in un sedimento che si deposita sul fondo della provetta.

Hershey e Chase scoprirono così che la maggior parte di 35S (e quindi della proteina virale) era contenuta nel liquido surnatante, mentre la maggior parte di 32P (e quindi del DNA virale) rimaneva all’interno dei batteri. Questi risultati suggerivano che a trasferirsi nei batteri era stato il DNA: quindi era proprio questa la sostanza capace di modificare il programma genetico della cellula batterica.

Figura 3
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Il ciclo riproduttivo del batteriofago T2

Il batteriofago T2 è un parassita del batterio E. coli e dipende dalla cellula batterica per la produzione di nuove particelle virali. Le strutture esterne del batteriofago T2 sono formate da proteine e rimangono fuori dalla cellula, mentre il DNA viene iniettato nei batteri ospiti.
Figura 4
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L’esperimento di Hershey-Chase

Questo esperimento ha dimostrato che il materiale genetico è costituito dal DNA e non dalle proteine. Quando cellule batteriche venivano infettate con batteriofagi T2 radiomarcati, soltanto il DNA marcato si trovava nei batteri, mentre le proteine marcate rimanevano nella soluzione.

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Per saperne di più

I virus

Un virus (che in latino significa «veleno») è un agente infettivo, non propriamente vivo, ma in grado di causare malattie agli organismi viventi. Un tipico virus è formato da un rivestimento proteico e contiene un solo acido nucleico: DNA o RNA, mai entrambi. Un virus può avere un diametro nell’ordine dei 10 nm, è cioè un centinaio di volte più piccolo di un batterio.

I biologi non sono ancora certi di quale sia l’origine evolutiva dei virus, che potrebbero essere organismi viventi regrediti fino a questo livello minimale, o potrebbero derivare da tratti di DNA persi dalle cellule e che hanno mantenuto alcune funzionalità genetiche. Non è nemmeno escluso che essi siano frutto di un’evoluzione molecolare indipendente e parallela, rispetto a quella degli organismi viventi.

I virus hanno forme e comportamenti diversissimi. Esistono virus per ogni tipo di organismi viventi: ci sono virus degli animali, dei vegetali, ma perfino i batteri hanno le loro malattie virali. In tutti i casi, l’infezione da virus prevede che esso porti all’interno della cellula infettata il suo acido nucleico, così da potere usare le strutture e l’energia della cellula per riprodursi.

In genere, quando la cellula si è trasformata in una sacca colma di copie del virus, scoppia, consentendo a ciascun elemento virale di andare alla ricerca di una nuova cellula da infettare.

Molte malattie umane sono causate da virus, alcune relativamente benigne, come l’influenza, altre tra le più pericolose, come l’AIDS o la febbre emorragica causata dal virus Ebola (figura).

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Il virus Ebola

Questa fotografia, fatta al microscopio elettronico a scansione e poi colorata, mostra il virus Ebola che causa l’omonima febbre emorragica dall’esito quasi sempre mortale.

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