L’idea che talvolta possano nascere organismi con uno o più caratteri del tutto diversi da quelli dei genitori (ovvero delle mutazioni) è vecchia quanto la storia umana; tuttavia, solo in epoche recenti si è cercato di dare una spiegazione scientifica a questo fatto.
Per Darwin sarebbe stato utile potere spiegare da dove proviene la straordinaria varietà che mostrano le specie viventi; egli però non aveva gli strumenti per elaborare una teoria genetica accettabile. Proprio per questo motivo, per spiegare le mutazioni egli accettò, almeno in parte, fattori come l’abitudine e l’influenza dell’ambiente, che di solito vengono associati al nome di Lamarck.
La mancanza di una base genetica per la varietà delle specie fu la ragione per cui molti tra i primi genetisti rifiutarono la teoria dell’evoluzione. Hugo De Vries (1848-1935), uno dei riscopritori del lavoro di Mendel, propose nel 1901 che l’origine di nuovi alleli dipendesse da un cambiamento improvviso e discontinuo del gene, che chiamò, appunto, mutazione. In realtà i casi studiati da De Vries risultarono dovuti non a mutazioni, ma a riarrangiamenti dei cromosomi; ciononostante il concetto di mutazione genetica entrò nel pensiero scientifico grazie a lui.
Una definizione più corretta fu data, pochi anni dopo, da un collega di De Vries, il microbiologo e botanico Martinus Beijerinck. Egli, tuttavia, lavorava sui batteri, e sulla genetica di questi organismi si sapeva molto poco. Molti microbiologi erano inclini a credere che i batteri potessero plasmare il proprio fenotipo sulla base delle esigenze ambientali e, forse, di un ciclo biologico interno. Per arrivare a fondare una genetica dei batteri occorrerà attendere il lavoro di Salvador E. Luria e Max Delbrück, negli anni Quaranta.
I primi studi sulle mutazioni sfruttarono invece un altro organismo modello, il moscerino della frutta Drosophila melanogaster. Attorno al 1915, Thomas Hunt Morgan (▶figura) e i suoi collaboratori avevano individuato poco meno di un centinaio di caratteri mutanti, che non si trovavano in natura ma che potevano essere isolati in laboratorio. Si trattava di aspetti che riguardavano le dimensioni delle ali, il colore del corpo, il colore e le dimensioni degli occhi. Morgan riteneva, sulla scia delle idee esposte da De Vries, che gli individui mutanti derivassero da un cambiamento raro e spontaneo a carico di un determinato gene.
Nel 1927 Hermann J. Muller, che lavorava con Morgan, dimostrò che irradiando le drosofile con raggi X si aumentava enormemente la frequenza di mutazione dei geni. Inoltre, Muller fu in grado di dimostrare che esisteva una proporzionalità diretta tra la dose di raggi X e il numero di mutazioni. Egli ne dedusse che le mutazioni si verificavano a carico di entità ben precise, confermando in modo indiretto l’esistenza dei geni.
Nelle idee di Muller il gene era un’unità di mutazione, e questa fu la definizione data dai genetisti negli anni seguenti. Nel 1941 George Beadle ed Edward Tatum pubblicarono i risultati delle loro ricerche sulla muffa del pane (N. crassa) proponendo la teoria «un gene – un enzima» e fornendo un contributo fondamentale alla comprensione del significato funzionale delle mutazioni.
Infine, nel 1953, Watson e Crick proposero il modello a doppia elica; a questo punto divenne evidente che una mutazione può consistere nel cambiamento di una singola base del DNA. L’unità di mutazione, quindi è la singola coppia di basi del DNA e non l’intero gene.