Nel settore orientale dell’arco alpino italiano sorge un famoso gruppo di rilievi, che i Ladini, gli antichi abitanti di quei luoghi, hanno per lungo tempo chiamato Lis montes pàljes, «i monti pallidi», per i colori chiari delle rocce. Secondo una leggenda ladina sarebbero stati i Silvani, i nani dei boschi e delle caverne, a rendere più chiare quelle vette, filando i raggi della Luna per tessere poi, intorno alle cime, una rete sottile e luminosa; e l’avrebbero fatto perché la figlia del re della Luna, sposa del re di quei monti, non soffrisse per la nostalgia del suo mondo lontano.
Oggi quei monti, riconosciuti dall’Unesco «Patrimonio naturale dell’Umanità», sono noti in tutto il mondo come Dolomiti, ma il nuovo nome non ha un’origine altrettanto poetica. Nel 1789, infatti, il marchese Déodat de Dolomieu, in viaggio lungo la strada fra Trento e Bolzano, raccolse dei campioni di una roccia di colore chiaro, simile al calcàre. In seguito si scoprì che era formata da un minerale allora non chiaramente identificato: un carbonato di calcio e magnesio, al quale, in onore di Dolomieu, fu dato il nome di dolomite, mentre dolòmia fu chiamata la roccia che lo conteneva.
Nella seconda metà dell’Ottocento, i primi turisti e alpinisti inglesi che visitavano i monti del Tirolo meridionale, cominciarono a parlare di «Dolomite Mountains»: il nuovo nome si affermò e Dolomiti è entrato nell’uso comune, caso più unico che raro di un’intera regione che ha preso il nome da un minerale noto solo a pochi specialisti.
Ma la caratteristica principale del paesaggio dolomitico è nel fatto che tale roccia appare come raccolta in imponenti gruppi isolati, circondati da ampie valli (figura ►32).
Circa 200 milioni di anni fa, in un mare poco profondo, in acque calde e agitate, cominciarono a formarsi delle scogliere coralline, simili, per la forma, ad atolli; poiché il fondo del mare si abbassava lentamente, i coralli, le alghe e miriadi di altri piccoli organismi, che si concentravano lungo il bordo della scogliera, continuavano a innalzare le loro costruzioni per restare vicino alla luce, come vediamo succedere attualmente negli atolli del Pacifico. Le rocce che nascevano da questo brulichio di vita erano calcàri e dolòmie e raggiungevano così centinaia di metri di spessore. Nella laguna all’interno della scogliera si accumulavano fanghi calcarei.
Dopo un lungo periodo le acque divennero torbide: numerosi vulcani erano entrati in attività, spargendo i prodotti delle loro eruzioni su un’ampia area. Coralli e alghe si estinsero e furono ricoperti da lave e piroclastiti. Quando il mare tornò limpido, si formarono altri calcàri e altre dolòmie, e lo spessore delle rocce accumulate crebbe ancora.
Tra una scogliera e l’altra, separate da ampi bracci di mare, si deponevano rocce diverse, in genere più tenere.
Quando si innalzò la catena alpina, tutte queste rocce emersero dal mare e iniziò l’erosione. Le antiche scogliere, liberate pian piano dal mantello di altre rocce, sono rimaste alte e isolate e formano ora i «gruppi dolomitici», con ripide pareti di rocce chiare, aride e brulle. Solo al tramonto, nei giorni sereni, quelle rupi si addolciscono di un caldo colore rosato: pochi attimi di un misterioso riflesso luminoso, che ha ispirato un’altra antica leggenda ladina. Un tempo quelle cime erano tutte fiorite di rose rosse ed erano il regno dei Nani, in cui si celavano favolosi tesori. Finché un giorno, re Laurino, per salvare il suo popolo dall’invidia dei popoli delle valli, fece un incantesimo e il roseto fu pietrificato in grigia roccia, «perchè non fosse più visibile, nè di giorno nè di notte». Ma re Laurino, nel suo incantesimo, dimenticò il crepuscolo, che non è più giorno e non è ancora notte, e da allora, al tramonto, per un breve attimo, rivive il «giardino delle rose».
Anche questa leggenda è affascinante, ma la realtà, una volta tanto, riesce forse a superarla, perché il tempo ha operato veramente un incantesimo nelle Dolomiti: ha cristallizzato per sempre un giardino di coralli.