Unità Aristotele

Lezione Il mondo estetico, etico e politico

La pratica della lettura

Giustizia distributiva e giustizia retributiva

Nell’Etica Nicomachea (V, 3, 1131 a 10 – 1132 b 9) Aristotele discute della giustizia, la più importante tra le virtù etiche (la loro “forma”) in quanto, derivando direttamente dall’osservanza delle leggi dello Stato, copre tutta l’area della vita morale. Come le altre virtù etiche, anche la giustizia implica il giusto mezzo tra eccesso e difetto; tuttavia, in aggiunta rispetto alle altre, essa stabilisce una proporzione tra i membri della società, proporzione che, secondo i fatti e i rapporti sociali considerati, potrà essere geometrica quando si tratta di “distribuire” a chi più merita onori e vantaggi (giustizia distributiva), mentre assumerà una forma aritmetica quando si tratta di riparare a un danno provocato o subìto (giustizia retributiva). Ora, entrambe le forme di giustizia non contengono norme sufficienti per consentire la scelta etica nei casi particolari. Nota infatti a tal riguardo la filosofa americana Martha Nussbaum (La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, ed. it. a cura di G. Zanetti, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 555): «Aristotele sostiene che chi tenti di decidere in ogni occasione appellandosi a certi principi generali considerati saldi ed inflessibili è come un architetto che tenti di usare una riga diritta per misurare le complesse curve di una colonna scanalata. Il buon architetto dovrebbe invece prendere le misure con una striscia flessibile di metallo che «si piega alla forma della pietra e non rimane rigida». La buona deliberazione, come questa riga, si adatta a ciò che trova, dimostrando sensibilità e rispetto per la complessità. Non presuppone che la forma della regola governi le apparenze; permette alle apparenze di governarsi da sole e di stabilire se la regola è corretta o meno».

«Poiché chi è ingiusto è iniquo, e ciò che è ingiusto è iniquo, è evidente che anche dell’iniquità vi è un giusto mezzo. E questo è l’equità: infatti in quelle azioni in cui v’è un più e un meno esiste anche l’equità. Se dunque ciò che è ingiusto è iniquo, ciò che è giusto è equo: e ciò appare a tutti anche senza ragionamento. E poiché l’equo è una posizione di mezzo, il giusto dev’essere pure una posizione di mezzo. L’equo presuppone poi almeno due termini. Necessariamente quindi il giusto, che è una posizione di mezzo ed è equo, è relativo a un oggetto e a delle persone; e in quanto è una posizione di mezzo, presuppone alcuni termini, cioè il più e il meno, in quanto è equo presuppone due persone, in quanto è giusto alcune persone. Necessariamente dunque il giusto comporta almeno quattro elementi: due sono infatti le persone per le quali si trova ad essere e due gli oggetti, rispetto ai quali può esistere.

E tale sarà l’eguaglianza: per le persone e nelle cose; e quali sono i rapporti tra le cose, tali dovranno essere anche quelli tra le persone: se infatti esse non sono eque non avranno neppure rapporti equi, bensì di qui sorgeranno battaglie e contestazioni, qualora persone eque abbiano e ottengano rapporti non equi oppure persone non eque abbiano e ottengano rapporti equi. Ciò è ancora evidente dal punto di vista del merito: tutti infatti concordano che nelle ripartizioni vi debba essere il giusto secondo il merito, ma non tutti riconoscono lo stesso merito, bensì i democratici lo vedono nella libertà, gli oligarchici nella ricchezza o nella nobiltà di nascita, gli aristocratici nella virtù. Quindi il giusto è, in certo senso, una proporzione.

Infatti la proporzione non è propria soltanto del numero aritmetico, ma in generale di ogni numero: la proporzione infatti è un’equità di rapporti e almeno tra quattro termini. E che la proporzione disgiunta abbia quattro termini, è evidente; ma ne ha quattro anche quella continua. Quest’ultima infatti usa un termine in due funzioni e lo ripete due volte; ad esempio, come A sta a B, così B sta a C. Quindi il termine B è ripetuto due volte, cosicché, se il B è posto due volte, quattro saranno i termini della proporzione. E anche il giusto si compone di almeno quattro elementi, e il rapporto è identico: sono infatti similmente distribuite le persone tra cui si svolge e i suoi oggetti. Si dirà dunque che il rapporto tra A e B si trova anche tra C e D e quindi, permutando, come A sta a C, così B sta a D. Quindi tale è anche il rapporto della somma alla somma: e la distribuzione combina i termini a due a due. E se essi sono giustamente combinati, l’addizione è giusta. Perciò l’accoppiare il termine A col termine C e B con D è giusto quanto alla distribuzione: e qui il giusto è il medio tra i due estremi che contrastano la proporzione: infatti la proporzione è un medio e il giusto è proporzione.

I matematici chiamano poi geometrica questa proporzione: infatti nella proporzione geometrica anche la somma sta alla somma come un termine sta all’altro. E questa proporzione non può essere continua: infatti non si può trovare un solo termine numerico per una persona e per una cosa. Il giusto infatti è questa proporzione, e l’ingiusto è ciò che contrasta la proporzione. Invero vi si distingue anche un più e un meno. E ciò accade nelle opere: chi infatti commette ingiustizia si attribuisce di più, chi subisce ingiustizia riceve di meno di ciò che è bene. In ciò che è male, invece avviene il contrario: il minor male è tenuto in conto di bene, il maggior male in conto di male. Infatti il male minore è preferibile a quello maggiore, e ciò che è preferibile è bene e tanto più grande bene quanto più lo è.

Dunque una specie di giusto è questa ora esaminata. Ve n’è poi un’altra ed è quella regolatrice, la quale si presenta nelle relazioni sociali, sia in quelle volontarie, sia in quelle involontarie. Questo giusto è di una specie diversa dalla precedente. Infatti la giustizia distributiva si manifesta sempre in conformità alla proporzione suddetta delle cose comuni [...]. Ciò che invece è giusto nelle relazioni sociali è una certa equità e l’ingiusto un’iniquità, non però secondo quella proporzione geometrica bensì secondo quella aritmetica. Infatti non v’è alcuna differenza se un uomo per bene ha rubato a un uomo dappoco o un uomo dappoco a uno per bene: né se chi ha commesso adulterio fosse un uomo per bene o un uomo dappoco; bensì la legge bada soltanto alla differenza del danno (e tratta le persone come eguali), cioè se uno ha commesso ingiustizia e un altro l’ha subita, se uno ha recato danno e un altro l’ha ricevuto. Cosicché il giudice si sforza di correggere questa ingiustizia, in quanto iniqua; e quando l’uno abbia ricevuto percosse e l’altro le abbia inferte, oppure anche uno abbia ucciso e l’altro sia morto, il subire e l’agire sono stati in rapporti d’iniquità: allora si cerca di correggerli con una perdita sottraendo così da ciò che era in vantaggio.

Si parla di vantaggio in tali cose solo in senso generale, anche se per taluni, come per chi ha percosso, la parola “vantaggio” non sia propria e così la parola “perdita” per chi ha subìto. Ma quando si voglia misurare ciò che si subisce, allora si può parlare di perdita e di vantaggio. Cosicché l’equo è il medio tra il più e il meno; il vantaggio e la perdita sono poi in senso opposto il più e il meno, il vantaggio è un più rispetto al bene e un meno rispetto al male, la perdita è il contrario: tra di essi l’equo è, come s’è detto, la via di mezzo ed è ciò che diciamo giusto: cosicché la giustizia correttiva sarebbe il medio tra il danno e il vantaggio. [...]

Quindi la giustizia, come pure il giudice, è qualcosa di medio. Il giudice poi eguaglia e, come se si trattasse di una linea tagliata in parti diseguali, toglie ciò per cui la parte maggiore supera la metà e l’aggiunge alla parte minore. Quando infatti il tutto è bipartito, si dice di avere la propria parte quando si prende una parte eguale. Perciò l’equo è il medio tra il più e il meno secondo la proporzione aritmetica. Per questo in greco esso è chiamato col termine “giusto” [díkaion], che è simile al termine “bipartito” [díchaion], proprio perché è diviso in due; e il termine “giudice” [dikastés] è simile al termine “bipartitore” [dichastés]. Se infatti, date due parti eguali, si toglie una certa quantità da una di esse e la si aggiunge all’altra, questa supererà la prima del doppio di tale quantità (se invece si sottraesse questa certa quantità alla prima parte, ma non la si aggiungesse all’altra, questa supererebbe la prima di questa sola quantità). Così essa supera il mezzo di una tale quantità e a sua volta il mezzo supera di una tale quantità la parte diminuita.

Con questo ragionamento dunque potremo scoprire che cosa bisogna sottrarre a chi ha di più e che cosa aggiungere a chi ha di meno: bisogna infatti aggiungere alla parte minore quel tanto di cui il mezzo è ad essa superiore, e togliere alla parte maggiore quel tanto di cui il mezzo è da essa superato. Siano eguali tra loro AA′, BB′, CC′. Si tolga da AA′ il segmento AE e si aggiunga a C′ un egual segmento, C′D. In tal modo la CC′D supera EA del segmento C′D più il segmento CZ, mentre supera BB′ del segmento C′D».

Aristotele, Etica Nicomachea, cit., pp. 113-118.

 


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