Unità Aristotele

Lezione

Il giudizio, l’argomentazione e il ragionamento

1. Le proposizioni (Sull’interpretazione)

Quando uniamo dei termini tra loro e, mediante la loro unione, affermiamo o neghiamo qualcosa di qualcos’altro, otteniamo la proposizione. Essa esprime l’insieme dei termini dal punto di vista logico-semantico; per esempio, l’unione dei termini “neve” e “bianco” attraverso la copula, significa il fatto che la neve è bianca. Se invece vogliamo cogliere il medesimo insieme dal punto di vista psicologico-mentalistico, cioè come un contenuto della nostra mente o un nostro “pensiero”, otteniamo il giudizio, il quale, dal punto di vista linguistico-espressivo, costituisce l’enunciato. Per esempio, il medesimo pensiero, espresso del giudizio che la neve è bianca, può avere due diversi enunciati: «la neve è bianca» e «the snow is white».

Per quanto non del tutto coincidenti, questi tre punti di vista possono essere considerati come sinonimi della proposizione categorica, cioè di un’espressione linguistica che ha le seguenti caratteristiche: a) è formata da almeno due termini (soggetto e predicato) e una copula; b) può essere distinta sia per qualità copulativa (“è” o “non è” = affermazione o negazione), sia per quantità del soggetto (tutti, non tutti, esattamente uno = universale, particolare e singolare); c) infine, essa non è né apodittica (necessaria), né problematica (possibile), ma semplicemente assertoria di un fatto. Una proposizione siffatta, oltre ad avere un significato, è suscettibile di essere vera o falsa e il discorso capace di questa determinazione si dice apofantico, cioè dichiarativo o descrittivo.

Tutte queste determinazioni hanno conseguenze fondamentali per la logica, e in particolare per la logica aristotelica. Anzitutto, esse escludono che una frase qualsiasi possa essere di per sé una “proposizione” che interessa il discorso logico. Infatti, se una frase non è dichiarativa, ma solo esclamativa, vocativa ecc., non può essere né vera né falsa; essa dunque rientra in un discorso di altro genere, per esempio retorico o poetico 1.

In secondo luogo, per le proposizioni logiche Aristotele offre un criterio di verità corrispondentistico che, almeno fino alla prima metà del Novecento, rappresenta il cardine della logica occidentale. Questo criterio dice che «il vero si ha quando col giudizio si congiunge ciò che è realmente congiunto oppure si disgiunge ciò che è realmente disgiunto; il falso quando invece si congiunge ciò che non è congiunto o si disgiunge ciò che non è disgiunto» 2. In altri termini, vero e falso indicano rispettivamente il sussistere o il non-sussistere di una corrispondenza tra il senso dell’enunciato e lo stato di cose da esso indicato. Una siffatta corrispondenza si chiama proprietà semantica della proposizione, mentre la sua qualità e la sua quantità ne esprimono le proprietà sintattiche.

Riguardo alle proprietà sintattiche della qualità copulativa, cioè l’affermazione e la negazione, bisogna osservare che esse sono l’una l’opposto dell’altra – o meglio il contraddittorio dell’altra – e, poiché non esiste una via di mezzo, allora necessariamente se l’una è vera l’altra è falsa e viceversa (principio di bivalenza = necessità del vero o del falso). La questione è più complessa se si considera la quantità della proposizione (quantità che Aristotele, in ragione della sua metafisica come calco della morfologia del linguaggio ordinario, ritiene legata al termine-soggetto). La quantità indica infatti l’estensione del soggetto, da un massimo (tutti) a un valore intermedio (qualche) al valore singolo (uno) fino a zero (nessuno) 3. In base a ciò, i discepoli di Aristotele, avvalendosi anche delle relazioni di contraddittorietà e contrarietà discusse nei libri IV e V della Metafisica, costruirono quello che in epoca medievale verrà chiamato “il quadrato delle opposizioni”.

L’importanza di tale schema è duplice: in primo luogo, esso chiarisce definitivamente la differenza tra contraddittorio e contrario, evitando le confusioni tipiche del linguaggio comune; in secondo luogo, tale differenza permette ad Aristotele di rappresentare formalmente il principio di bivalenza. Infatti, il contraddittorio della proposizione universale affermativa (per esempio: «Tutti gli uomini sono bianchi») è la particolare negativa («Qualche uomo non è bianco»), mentre il suo contrario è l’universale negativa («Nessun uomo è bianco»). Così, la contraddittorietà appare come una forma di opposizione più forte rispetto alla contrarietà (anzi la più forte di tutte), poiché la verità di un contraddittorio implica la falsità dell’altro e viceversa, mentre la falsità di un contrario può coesistere con la falsità dell’altro. Si consideri, infatti, che «Tutti gli uomini sono bianchi» e «Nessun uomo è bianco» possono essere entrambe false, nella misura in cui è vero che solo «Qualche uomo è bianco». A tutte queste figure, i medievali aggiunsero poi le relazioni di subcontrarietà («Qualche uomo è bianco» e «Qualche uomo non è bianco» possono essere entrambe vere, ma non entrambe false) e di subalternità (la verità dell’universale, per esempio «Tutti gli uomini sono bianchi», implica quella della particolare «Qualche uomo è bianco», ma non viceversa) che completano il quadro di partenza 4.

Aristotele enuncia inoltre come proposizioni (ossia come verità ontologiche o leggi del pensiero) i principali assiomi della logica generale, cioè i principi di identità (A = A), non-contraddizione (non(A e non-A)) 5 e terzo escluso (A o non-A), di cui non è possibile dare dimostrazione se non indiretta, dal momento che vengono impiegati anche da coloro i quali ne negano la validità 6.

Soltanto in un caso Aristotele sembra respingerne l’applicabilità, cioè in occasione delle proposizioni che riguardano fatti “contingenti futuri”. Infatti la contingenza, secondo cui vi sono cose che possono accadere ma anche non accadere – per esempio una battaglia navale –, non è isomorfa alla concezione della verità come corrispondenza. Così, la proposizione dichiarativa «domani vi sarà una battaglia navale» non è né vera né falsa poiché, come vi sono fatti in potenza ma non ancora realizzati, allo stesso modo vi sono giudizi potenzialmente veri o falsi, ma non ancora tali. L’unica cosa che possiamo dire è che senza dubbio (necessariamente) la battaglia accadrà ovvero non accadrà (in formula: N(p˅¬p)), ma non che senza dubbio essa accadrà o senza dubbio non accadrà (Np ˅ N¬p).

Il problema dei contingenti futuri si collega alla delineazione di una logica modale di cui Aristotele è il fondatore. La teoria della modalità si occupa del modo in cui soggetto e predicato sono connessi o disgiunti. Questo modo può presentarsi come necessario («deve essere così»), possibile («può essere così») o semplicemente assertorio («è così»). L’importanza della logica modale sta nel fatto che – come vedremo – essa si collega sul piano metafisico all’ontologia dinamica della potenza e dell’atto, mentre la logica assertoria corrisponde all’ontologia statica di materia e forma.


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2. La struttura generale del ragionamento o “sillogismo” (Analitici primi)

Ripercorriamo ora in breve il processo che ci ha portato dagli elementi al composto che costituisce la proposizione. Gli elementi o termini vengono riuniti sotto le categorie, cioè i generi massimi a cui possono essere ricondotti i diversi tipi di predicati. Partendo dai generi massimi, i termini possono essere più o meno estesi (generi o classi e specie o sottoclassi), fino all’estensione minima dei nomi propri che si riferiscono solo a un individuo. Questa differente estensione, specificata nei diversi rapporti tra classi e sottoclassi, permette di unire e dividere i termini, cioè di costruire delle proposizioni o giudizi.

Ma affermare o negare qualcosa in un giudizio non significa ancora ragionare, cioè esprimere il motivo o la causa in base a cui formuliamo una certa connessione. Non solo, ma certe relazioni tra termini, che nei giudizi esprimono dei fatti, possono a loro volta essere o no in relazione con altri fatti sempre espressi da giudizi, istituendo nessi o catene di consequenzialità. Perveniamo così a un livello più complesso della proposizione che rappresenta l’unione di più proposizioni o sillogismo, ovvero quel «discorso in cui, posto qualcosa come premessa, qualcos’altro ne deriva di necessità come conseguenza».

Ora, in tutti i ragionamenti, le proposizioni compaiono come tesi che vengono argomentate. A questo proposito notiamo due circostanze. 1) Non ogni proposizione è una tesi, ma è tale solo se entra in un ragionamento. Quando vi rientra, essa può comparire secondo tipi diversi di classificazione, che Aristotele esprime tramite la dottrina dei predicabili. Ogni tesi può infatti concernere o la definizione (il predicato ha la stessa estensione del soggetto e ne esprime l’essenza), o la proprietà caratteristica, anche detta il “proprio”(il predicato ha la stessa estensione del soggetto ma non concorre alla definizione), o il genere (il predicato è più esteso e concorre alla definizione), o infine l’accidente (il predicato è meno esteso e non concorre alla definizione) 7. Anche qui interviene il quadrato di due disgiunzioni complete: definizione e proprietà sono predicazioni d’identità, mentre le rimanenti sono solo di inclusione. 2) L’argomento non è la tesi, ma ha la funzione di provare o dimostrare una tesi.

Ovviamente, non tutti i ragionamenti (sillogismi), gli argomenti e le “prove” addotte sono uguali né hanno la stessa forza dimostrativa. In generale, i sillogismi hanno elementi formali comuni, ma differiscono per la loro struttura sostanziale, cioè per il modo in cui questi elementi vengono composti e per il loro contenuto di conoscenza. Formalmente, ogni sillogismo è composto da due premesse e una conclusione; nel complesso compaiono tre termini che, in ordine di estensione crescente, sono il minore, il medio e il maggiore. Delle premesse, si chiama maggiore quella che contiene, oltre al medio, il termine maggiore; minore quella che contiene, oltre al medio, il termine minore; infine, si chiama conclusione quella proposizione che salta il medio e collega il termine minore con il maggiore 8.

Tutto questo garantisce la coerenza o “correttezza” del ragionamento, cioè la sua validità sintattica. Per poter invece parlare della validità semantica, cioè del contenuto di verità che il sillogismo può offrire come forma di conoscenza, bisogna prendere in considerazione la sua struttura sostanziale, cioè la modalità e l’origine delle premesse che lo compongono. Per Aristotele, infatti, vale l’equazione secondo cui quanta verità è contenuta nelle premesse, altrettanta verità si ritrova nella conclusione. Ora, anche se questa corrispondenza ci appare ovvia ed evidente, bisogna notare che – per diverse ragioni che esamineremo nell’unità 6 – essa non è accettata né da una parte della logica antica successiva (per esempio, quella megarico-stoica), né dalla logica proposizionale moderna.

Secondo la modalità delle premesse, un sillogismo può essere: a) apodittico o scientifico, quando le premesse sono vere e l’inferenza è corretta; b) dialettico, quando si usano come premesse dei topici o luoghi comuni, cioè si sa solo che l’inferenza è corretta ma si ignora se le premesse siano vere; in tal caso le premesse vanno espresse in forma ipotetico-condizionale («se..., allora...»), per indicare che la conclusione non può essere staccata dalle premesse; c) retorico, quando siamo in presenza di entimemi, cioè ignoriamo se la conclusione è vera e se l’inferenza è corretta.

Tutte queste modalità sono in stretta relazione con la forma enunciativa, cioè con le “figure” (schémata) che il sillogismo può ammettere. Esse sono fondamentalmente tre – a cui successivamente Teofrasto ne ha aggiunta una quarta, detta poi “galenica” – e dipendono dalla diversa posizione che il termine medio occupa nelle premesse, vale a dire: I figura: il termine medio (M) fa da soggetto nella premessa maggiore (in cui compare il termine maggiore: P) e da predicato nella minore (in cui compare il termine minore: S): M-P, S-M → S-P; II figura: il medio compare come predicato in entrambe le premesse: P-M, S-M, → S-P; III figura: il medio compare come soggetto in entrambe le premesse: M-P, M-S → S-P; IV figura: il medio è predicato nella premessa maggiore e soggetto nella minore: P-M, M-S → S-P. Poiché le premesse possono essere (1) universali o (2) particolari, così come (3) affermative o (4) negative, ogni figura dà vita a 64 modi possibili, cioè a 256 modi per tutte e quattro le figure, tra i quali Aristotele riconosce complessivamente solo 14 modi validi (poi portati da Leibniz a 24 con l’introduzione della IV figura). Peraltro, il fatto che un modo sia valido non significa che sia scientifico o autenticamente dimostrativo. A tale scopo, dobbiamo esaminare le condizioni del sillogismo scientifico.


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3. Il sillogismo scientifico (Analitici primi e Analitici secondi)

Affinché un sillogismo possa offrire una prova della conclusione, fungendo così da modello per ogni scienza classificatoria di tipo aristotelico, occorre che si verifichino in modo congiunto alcune condizioni. Abbiamo già detto della verità come ciò che distingue semanticamente il sillogismo apodittico dagli altri. Ora, questa condizione, anche se la più importante di tutte, non è di per sé sufficiente. Occorre anche che le premesse siano le cause della conclusione in forma affermativo-categorica, cioè che si dia un’implicazione necessaria e positiva. Per Aristotele questo aspetto “causale” è rappresentato precisamente dalla funzione svolta dal termine medio, ma solo nel modo di I figura (modus Barbara), in cui la premessa maggiore deve essere universale e la minore affermativa. In tal senso, viene soddisfatta la condizione sufficiente per asserire la conclusione come proposizione a sé, cioè per staccarla dall’argomento (condizione dei sillogismi scientifici). Al contrario, l’uso della II figura prova una conclusione sempre negativa, dimostrando che non è stata soddisfatta la condizione necessaria per la sua affermazione. Questa argomentazione “negativa” trova applicazione nei sillogismi dialettici. A sua volta, l’uso della III figura porta a un modo valido solo se, attraverso una premessa minore affermativa, si giunge a una conclusione sempre particolare, cioè si conclude mediante un’esemplificazione. Ora, per esemplificare è necessario che le premesse abbiano un senso esistenziale e che si argomenti per analogia, due condizioni del tutto incompatibili con il ragionamento deduttivo, perfetto e completo del sillogismo “scientifico” di prima figura 9.

Un’altra condizione del sillogismo scientifico, oltre al rapporto causale instaurato dal termine medio in prima figura, riguarda l’origine incontrovertibile delle premesse, cioè il fatto che esse siano prime o riconducibili a proposizioni prime, più note, anteriori e non bisognose di ulteriori dimostrazioni, in quanto verità universali e in sé evidenti. Ora, due sono i modi in cui si possono cogliere tali verità prime: l’intuizione e l’induzione. L’intuizione è un atto semplice, puro e immediato che ci permette di cogliere direttamente i principi indimostrabili della scienza. Tuttavia, non sempre questi principi ci sono dati come immediatamente presenti all’intelletto, ma a volte necessitano di un processo discorsivo chiamato induzione, in grado di farci ricavare l’universale dal particolare. Noi sappiamo però che l’induzione è potenzialmente infinita e, di per sé, non conclude mai in un principio universale; a tal fine, essa necessita dell’intervento dell’intuizione la quale, come atto di astrazione, porta a conclusione l’intero processo.

Come si può notare, queste funzioni apprensive (dirette, assiomatiche) e astrattive (indirette, concettuali) dell’intuizione fuoriescono dall’oggettività della logica per richiamarsi sia a presupposti ontologico-metafisici (la sostanza prima, il divino ecc.) sia a caratterizzazioni psicologiche (come la “capacità” dell’intelletto puro di cogliere direttamente i principi). A questo riguardo, è bene osservare che anche se comunemente, e soprattutto nella successiva tradizione peripatetica, il sillogismo aristotelico viene riprodotto nelle forme consuete della teoria della quantificazione (“tutti”, “qualche” ecc.), in cui al primo posto compare il soggetto e al secondo il predicato – così come abbiamo per comodità riportato nella tabella 9 a p. 426 – , in realtà la sua “vera forma”, come ha notato il logico polacco Łukasiewicz, è quella che corrispone all’inerenza ontologica del predicato rispetto al soggetto: quindi non “Ogni B è A”, ma “A appartiene a ogni B”. Il sillogismo aristotelico è dunque un calco della sua ontologia, nella quale le sostanze seconde, che compaiono linguisticamente come predicati (nel nostro caso, “A”), si trovano sempre all’interno delle sostanze prime. Si tratta di un’ulteriore conferma – dopo l’identificazione della forma proposizionale con la morfologia enunciativa del linguaggio ordinario – dell’impossibilità di intendere la logica aristotelica come puramente formale (o meglio, “formalistica”) e, in tal senso, come precorritrice della moderna logica simbolica 10, 11. Infatti i suoi formalismi sono relativi ai soli termini generali, cosicché, più che di variabili, si tratta di acrostici, cioè utili abbreviazioni. Infine, fra gli usi informativi del linguaggio – non però legati alla scienza – rientrano anche i ragionamenti dialettici, topici e sofistici a cui accenneremo nella trattazione della filosofia pratica.

9.Tabella riassuntiva delle tipologie dei sillogismi

Tipi di sillogismo Modalità delle premesse Figure di riferimento Forme della relazione
Sillogismo scientifico o apodittico
  • Conoscenze certe.
  • Premesse vere.
  • Inferenza corretta.
I figura (modus Barbara):
M
-P, S-M → S-P
Esempio: Ogni animale è mortale. Ogni uomo è animale. Ogni uomo è mortale
  • Implicazione causale, categorica, affermativa.
  • La conclusione si può staccare dalle premesse.
Sillogismo dialettico
  • Topici o luoghi comuni (al condizionale).
  • Premesse vere?
  • Inferenza corretta.
II figura:
P-M, S-M, → S-P
Esempio: Nessuna pietra è animale. Ogni uomo è animale. Nessun uomo è pietra
  • Implicazione negativa.
  • La conclusione non si può staccare dalle premesse.
Sillogismo retorico
  • Entimemi.
  • Premesse vere?
  • Conclusione vera?
  • Inferenza corretta?
III figura:
M-P, M-S → S-P
Esempio: Ogni uomo è sostanza. Ogni uomo è animale. Qualche animale è sostanza
  • Implicazione esemplificativa, analogica.
  • La conclusione – sempre particolare – non si può staccare dalle premesse.
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La pratica dei concetti

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La pratica della lettura

5. Il futuro non è mai necessario

Nel suo scritto di logica Sull’interpretazione (9, 18 b 33 – 19 b 4), dopo aver stabilito che il principio di bivalenza vero/falso vale incondizionatamente rispetto agli eventi presenti e passati («Rispetto agli oggetti che sono e che sono stati, è necessario che tra l’affermazione e la negazione una risulti vera e l’altra invece falsa»), Aristotele affronta il problema se tale principio debba valere anche rispetto agli eventi “che saranno”. Si tratta della questione dei cosiddetti “contingenti futuri”, che introduce l’altra questione, di carattere soprattutto metafisico, se il futuro sia o no predeterminato, vale a dire necessario o contingente. La risposta di Aristotele a tal riguardo è netta ed esattamente opposta all’“argomento dominatore” di Diodoro Crono (cfr. lezione 18): è impossibile anticipare, quanto al valore di verità, il futuro. Esso non è mai necessario e, di conseguenza, bisogna rifiutare ogni determinismo. Questo anti-determinismo non solo respinge come inconcludente qualsiasi affermazione “profetica” sugli accadimenti futuri, ma si fonda su un’argomentazione logicamente rigorosa: la necessità per il futuro vale solo in senso “composto” («è necessario che domani l’evento x accada o non accada») mentre non ha alcun valore in senso “diviso” («è necessario che l’evento accada o è necessario che l’evento non accada»).

«Nulla impedisce che un uomo predichi anche di diecimila anni la realtà di un fatto, e che un altro uomo neghi tale affermazione; di conseguenza, si verificherà necessariamente quella delle due cose, non importa quale, che già all’atto della predizione era vero dire. Né certo ha alcuna importanza che delle persone abbiano pronunciato o meno due giudizi contraddittori: in realtà, è evidente che i fatti sono quelli che sono, anche se un uomo non ha affermato qualcosa ed un altro uomo non l’ha negato. Non è infatti per la circostanza di essere stato negato, oppure affermato, che un qualcosa sarà o non sarà, e che un avvenimento si verificherà dopo diecimila anni, piuttosto che non in qualsiasi altro momento di tempo. Di conseguenza, se in ogni tempo la situazione delle cose ha fatto sì che fosse allora vero esprimere l’affermazione oppure la negazione, era così già necessario che questo fatto si sia prodotto, e tutto ciò che si è prodotto sia sempre in una situazione tale da prodursi per necessità. Ciò infatti, di cui si è detto secondo verità che sarà, non è possibile che non si produca; del pari, rispetto a ciò che si produce, è sempre stato vero dire che sarà.

Senza dubbio, bisogna ammettere che queste asserzioni risultano impossibili. Noi vediamo infatti che gli eventi futuri prendono principio dalle deliberazioni e dalle azioni, e che in linea generale agli oggetti che non sempre sono in atto tocca indifferentemente il potere di essere o di non essere; per tali oggetti entrambe le cose sono possibili, sia l’essere che il non essere, cosicché risultano possibili sia il divenire che il non divenire. E molti oggetti si comportano evidentemente in questo modo; ad esempio, un determinato mantello ha la possibilità di venir tagliato in due, eppure non sarà tagliato, ma si logorerà prima di allora. Per tale mantello sussiste poi ugualmente la possibilità di non venir tagliato in due, dato che esso non risulterebbe consunto in precedenza, se non fosse davvero in grado di non essere tagliato in due. Di conseguenza, ciò si dirà pure di tutti gli altri aspetti del divenire, cui va attribuito un cosiffatto potere.

È dunque evidente che non tutti gli oggetti sono o divengono per necessità; si deve dire, piuttosto, che alcuni oggetti possono accadere indifferentemente in due modi, caso in cui l’affermazione non risulta affatto più vera della negazione, e che a riguardo di altri oggetti una delle due possibilità è preminente e si verifica con maggior frequenza, nonostante che anche la seconda possibilità possa presentarsi, e non si verifichi allora la prima. Che ciò che è sia, quando è, e che ciò che non è non sia, quando non è, risulta certo necessario; non è però necessario che tutto ciò che è sia, né che tutto ciò che non è non sia. In effetti, l’essere per necessità di tutto ciò che è, quando è, non equivale all’essere per necessità, assolutamente, di tutto ciò che è. Similmente si dica per ciò che non è.

Del pari, lo stesso discorso vale per i giudizi contraddittori in proposito. Certo, per necessità ogni oggetto è o non è, come pure, sarà o non sarà, ma non è davvero necessario dire una delle due cose, separata dall’altra. Con ciò intendo dire, ad esempio, che necessariamente domani vi sarà una battaglia navale, oppure non vi sarà, ma che non è tuttavia necessario che domani vi sia una battaglia navale, né d’altra parte è necessario che domani non vi sia una battaglia navale. Ciò che invece risulta necessario, è che domani avvenga o non avvenga una battaglia navale. Di conseguenza, dal momento che i discorsi sono veri analogamente a come lo sono gli oggetti, è chiaro che a proposito di tutti gli oggetti, costituiti così da accadere indifferentemente in due modi, secondo delle possibilità contrarie, anche la contraddizione si comporterà necessariamente in maniera simile.

È appunto ciò che avviene riguardo agli oggetti che non sono sempre, oppure a quelli che non sempre non sono. In tali casi è infatti necessario che una delle due parti della contraddizione sia vera e l’altra invece falsa, ma non è tuttavia necessario che una determinata parte sia vera oppure falsa; sussiste piuttosto un’indifferenza tra due possibilità, e quand’anche uno dei due casi risulti più vero, la verità e la falsità non saranno tuttavia già decise sin da principio. Risulta chiaro, di conseguenza, che non sempre, riguardo ad un’affermazione e ad una negazione contrapposte, sarà necessario che una di esse sia vera e l’altra invece falsa: in effetti, ciò che vale per gli oggetti che sono non vale allo stesso modo per quelli che non sono, ed hanno la possibilità di essere o di non essere».

Aristotele, Dell’espressione [Sull’interpretazione], cit., pp. 62-64.

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