Unità Aristotele

Lezione

La logica come scienza: dalle idee alle classi. Le “categorie” tra logica e realtà

1. Il linguaggio e il pensiero logico

Nelle lezioni precedenti, abbiamo sottolineato come Aristotele tenda a un’organizzazione unitaria del sapere. Utilizzando una metafora biologica, in corrispondenza con l’impostazione naturalistica della sua filosofia, la conoscenza in senso aristotelico è raffigurabile come un grande organismo vivente le cui articolazioni sono le scienze particolari che fanno capo a un organo centrale, la filosofia prima o metafisica, il cui oggetto è l’essere in generale. Quest’organismo è tenuto insieme da un filo conduttore comune che possiamo immaginare come il suo sistema nervoso (non in quanto materia di cui è composto, ma nelle sue funzioni di informazione): esso s’incarica di mantenere la stessa forma pur nella diversità dei contenuti, cioè di garantire un procedimento comune a tutte le scienze.

Un simile filo conduttore comune deve assicurare, in ogni ambito, la correttezza del ragionamento e la capacità di offrire discorsi probanti e dimostrativi, ossia le condizioni formali alle quali bisogna attenersi per conseguire una conoscenza. Come i nervi non creano il rosso che vediamo, ma in base a un codice trasmettono al cervello lo stimolo visivo sotto forma di sensazione, così tale elemento comune non fa parte di quella razionalità che ci dice com’è fatto il mondo, ma ne è in un certo senso la premessa, in quanto condizione necessaria – ma non sufficiente – che rende possibile la scoperta della verità. Questo è, per Aristotele, il concetto di logica o “analitica”: una scienza preliminare che svolge la funzione di “strumento” (órganon) rispetto a tutte le altre scienze 1.

Tuttavia, né il termine “logica”, né la definizione di órganon per indicare la forma della logica aristotelica – per quanto corrispondenti al suo “spirito” – sono propri di Aristotele. Il primo risale all’epoca di Cicerone (I sec. a.C.) ed è probabilmente di coniazione stoica; il secondo fu introdotto da Alessandro di Afrodisia (III sec. d.C.), e solo a partire dal VI sec. d.C. fu applicato come titolo al complesso degli scritti aristotelici concernenti la logica. Aristotele chiamava infatti quest’ultima “analitica”, che significa metodo di risoluzione di una conclusione negli elementi o premesse da cui essa deriva, le quali, pertanto, la “fondano” ovvero la “giustificano”. Per comprendere il significato di questo metodo risolutivo, bisogna chiarire la sua struttura e la sua origine.

Anzitutto, la logica aristotelica manifesta sia elementi comuni a gran parte della logica antica precedente, sia aspetti innovativi specifici. Gli elementi comuni sono elencabili nel modo seguente. a) Il carattere ontologico della logica: un ragionamento corretto e dimostrativo corrisponde alla realtà, ci dice come sono fatte le cose. b) I principi logici non sono semplici regole d’inferenza, cioè pure forme di connessione, ma proposizioni che, come tali, devono risultare vere o false. Quando una proposizione è vera, esiste ciò che viene asserito. c) Di conseguenza, i principi logici sono leggi di natura e regole del pensiero, ricavate per astrazione dal linguaggio ordinario. Grammatica, logica e psicologia si corrispondono, poiché non vi è distinzione tra l’enunciato, cioè la lingua particolare in cui viene espresso un significato (per esempio, il greco), e la proposizione, cioè il linguaggio o la struttura semantica significativa in cui qualcosa viene espresso (per esempio, il linguaggio verbale o il linguaggio simbolico come la matematica).

Accanto a questi elementi comuni, Aristotele presenta la logica con caratteri del tutto peculiari, tali da renderla, per la prima volta, una scienza compiuta e autonoma attraverso una trattazione sistematica e astratta. I suoi contributi innovativi sono fondamentalmente due, il secondo conseguenza del primo.

  1. Egli intende la scienza logica insieme come uno sviluppo e una critica della dottrina platonica delle idee. Lo sviluppo consiste nel rendere formalmente intelligibile – contro il monismo di Parmenide e l’incerto formalismo “qualitativo” di Platone – la predicazione di non-identità, ridefinendo in senso logico-estensionale la relazione di partecipazione; la critica consiste invece nell’evidenziare che tale riformulazione non è possibile se non concependo le idee non più come “entità”, ma solo come generi e specie.
  2. A questa linea di sviluppo si lega il chiarimento decisivo che Aristotele apporta riguardo alla tematica della logica, cioè l’approfondimento della forma e delle relazioni, sia sintattiche sia semantiche, che s’istituiscono all’interno del linguaggio ordinario 2.

Vi è così nell’órganon una prima logica, in cui non compaiono formulazioni sillogistiche né variabili; a essa succede una seconda logica, di transizione, caratterizzata dagli inizi della sillogistica e dell’uso di variabili, e infine una terza logica che contiene una sillogistica modale e una metalogica del sillogismo. Da questa articolazione otteniamo una compagine che si sviluppa dallo stadio più semplice o “atomico” (le parti o elementi del linguaggio) ai livelli più complessi, che chiameremo rispettivamente “molecolare” (i giudizi) e “molare” (i ragionamenti e le inferenze). Dal punto di vista della trattazione tematica, la logica aristotelica può quindi essere ordinata nel modo seguente (tra parentesi, vengono indicate le opere in cui tale trattazione ha luogo): a) i termini, le parole e i concetti, sia come “soggetti” della proposizione, sia come “predicati” (le Categorie); b) l’enunciato, la proposizione e il giudizio (il trattato Sull’interpretazione); c) la struttura generale del ragionamento sillogistico (gli Analitici primi); d) il sillogismo apodittico, scientifico o dimostrativo (gli Analitici secondi); e) il sillogismo dialettico e ipotetico (i Topici); f) il sillogismo sofistico o fallace (gli Elenchi sofistici) 3.

Questa successione può essere rappresentata attraverso una terminologia psicologica e mentalistica – per cui il discorso del quale si occupa la logica è composto da concetti (semplici rappresentazioni di cose o situazioni), da giudizi (concetti dotati di posizione di realtà, cioè come attestanti l’esistenza o la non esistenza di qualcosa in un contesto) e da ragionamenti (concatenazione di giudizi, alcuni dei quali fungono da presupposti e altri da conseguenze) –; oppure possiamo renderla mediante una terminologia più strettamente linguistica, secondo cui un discorso è logico quando si articola in argomenti (anziché ragionamenti); l’argomento a sua volta è in funzione delle proposizioni (anziché dei giudizi) e queste ultime, infine, sono in funzione del significato (anziché delle cose o situazioni) dei termini o espressioni (anziché dei concetti) che ne costituiscono l’enunciato, cioè la forma espressiva di un linguaggio verbale.

In conclusione, per Aristotele le facoltà mentali sono invocate per spiegare la funzione del linguaggio e la mente stessa è concepita come un sistema segnico: «I segni fonetici sono simboli delle affezioni psichiche, così come queste lo sono delle cose» 4.


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2. Le categorie

  1. Il requisito di univocità del discorso. Partendo dal basso, cioè dai termini (in senso linguistico) ovvero dai concetti (in senso mentalistico), la logica deve anzitutto mettere in guardia contro i fraintendimenti del linguaggio, che possono sorgere quando uno stesso termine ha più di un significato o più termini hanno un medesimo significato. È questo il requisito dell’univocità, indispensabile per la chiarezza del discorso, cioè per ragionare effettivamente “intorno alle cose”, anziché perdersi in sterili dispute verbali.

    A questo proposito, Aristotele delinea una concezione del rapporto semantico – cioè della relazione che deve instaurarsi tra il segno e ciò che da esso viene designato – del tipo nome-oggetto, la quale si articola in tre forme: a) correlazione uno-uno: a ogni diverso nome corrisponde uno e un solo oggetto; è il caso del rapporto tra il nome proprio e l’individuo; b) correlazione uno-molti: a un nome corrispondono più oggetti. Qui possiamo avere il caso estremo dell’omonimia assoluta (rispetto agli individui e rispetto alla specie; per esempio, «toro» come animale e come costellazione) o quello più moderato dell’omonimia relativa (rispetto agli individui, ma non rispetto alla specie o genere; per esempio, «animale» rispetto al bue e all’uomo; si tratta del rapporto tra nome comune e individui). Osserviamo ora più da vicino il caso dell’omonimia relativa. Se consideriamo le specie più basse, per esempio uomo e bue, allora il nome di «animale» risulta per esse equivoco (omonimo) perché non hanno lo stesso discorso definitorio (significato); ma se consideriamo il genere, cioè l’essere un animale, allora il discorso definitorio è lo stesso.

    Quindi entrambi hanno lo stesso nome e lo stesso significato rispetto all’animalità, sono cioè sinonimi. Otteniamo così la correlazione c) di sinonimia, ovvero molti-uno: a più nomi (uomo e bue) corrisponde un solo oggetto (animale).

    Infine, il rapporto tra nome e oggetto può essere non solo diretto, ma anche indiretto; vi sono infatti casi in cui da una parola assunta come “radice” in senso nominativo derivano, mediante flessione, altre parole che hanno significato in quanto traggono origine da quella radice, come «grammatico» che trae origine dalla grammatica, o «medico» dalla medicina e dalla salute. Aristotele chiama paronimia questo rapporto indiretto di designazione del tipo molti-molti: essa corrisponde all’accidente grammaticale della flessione del nome. Si tratta di una sintesi verticale tra omonimia (diversità) e sinonimia (identità) che – come vedremo nella lezione 33 – riveste un ruolo di primo piano nell’ontologia perché permette di intendere in senso uni-equivoco il rapporto tra la sostanza e i suoi attributi 5.

  2. La connessione predicativa. I nomi possono essere enunciati isolatamente o detti in connessione con altri nomi e parti del discorso. Se presi isolatamente, non dicono nulla, cioè non hanno senso semantico o rappresentativo perché non possono essere detti veri o falsi rispetto a un fatto. D’altra parte, non tutte le connessioni hanno un senso semantico, per esempio: «uomo che corre ma non vince» non è né vero né falso perché non viene indicato a chi o a quale situazione si riferisce. L’unica connessione sintatticamente ammissibile e dotata di un senso rappresentativo è, per Aristotele, quella che ha la struttura soggetto-predicato (connessione predicativa). Il motivo dell’elezione della connessione predicativa a modello semantico primario è evidente: come vedremo, essa riproduce la struttura ontologica del rapporto tra sostanza e attributo.

    La connessione predicativa esprime dunque la relazione tra predicato (= ciò che si dice di qualcosa) e soggetto (= ciò di cui si dice che è o ha qualcosa). Notiamo però subito che la forma predicativa che ci è più consueta, cioè quella che viene resa attraverso la copula, come «Socrate è un uomo», non fa parte della logica aristotelica. Aristotele usa le espressioni “essere di” o “essere in”, cioè “inerire a” o “appartenere”, ma mai “essere un” ecc. Questo impiego rende più evidente l’esistenza di un criterio formale e oggettivo per distinguere la diversa funzione del soggetto e del predicato, la quale invece non traspare dall’uso della semplice copula. Per esempio, per esprimere l’attribuzione affermativa «Socrate è un uomo», la connessione predicativa evidenzia che «l’umanità è di Socrate (cioè gli viene attribuita)»; per esprimere l’attribuzione negativa «Socrate non è quadrupede» si pone invece in risalto che «l’essere quadrupede non è di Socrate». Ora, dire che l’umanità viene attribuita a Socrate non significa che l’umanità sia in Socrate; infatti non tutti gli uomini sono Socrate. Possiamo invece costruire legittimamente la conversa della relazione di attribuzione, cioè sostituire il “di” con l’“in”, solo scambiando i termini, vale a dire: «Socrate è nell’umanità».

    L’importanza di quest’analisi consiste nel mostrare l’asimmetria di funzione tra soggetto e predicato: se avessero la stessa funzione, la relazione di attribuzione dovrebbe sempre essere sostituibile con la conversa senza scambiare i termini, oppure i termini sarebbero interscambiabili lasciando inalterata la relazione di attribuzione. Questa distinzione, che batte in breccia definitivamente la tesi eleatico-megarica secondo cui ogni predicazione è un’asserzione d’identità, corrisponde a ciò che oggi si dice appartenenza di un individuo a una classe o inclusione di una classe in un’altra, relazioni che, a differenza dell’identità, non sono simmetriche 6.

  3. Il limite superiore e inferiore della connessione predicativa. Da quanto detto, risulta che la struttura asimmetrica della relazione di predicazione definisce quale dei due membri debba valere come soggetto e quale come predicato. Naturalmente, a decidere da che parte si trovi l’asimmetria è la struttura della realtà, cioè il significato intrinseco ai due termini. Ora, ciò che è predicato in una connessione predicativa può diventare soggetto in un’altra, per esempio: «il bue è un mammifero (predicato)» e «i mammiferi (soggetto) sono animali». Tale relatività dipende dalla gerarchia tra generi e specie o sostanze seconde, ma non è illimitata; essa trova anzi un limite inferiore nei soggetti ultimi, cioè nei termini che non possono mai fungere da predicati e che designano gli individui, ovvero – come li chiama Aristotele – le sostanze prime. Queste corrispondono al senso denotativo del significato, cioè all’uso del termine come nome proprio di un oggetto o come nome comune di un insieme di oggetti. Le sostanze seconde, invece, rendono il senso connotativo, cioè l’uso del termine come attributo descrittivo di una qualità o insieme di qualità.

    I termini denotanti individui o gruppi di individui hanno senso estensionale, e perciò possono fungere solo da soggetti; viceversa, quelli connotanti qualità o proprietà comuni a più individui hanno senso intensionale, e perciò solo essi possono fungere da predicati. Risalendo la scala nel senso inverso della connotazione o “intensione”, s’incontra pertanto un limite superiore nei predicati ultimi, che Aristotele chiama categorie o “generi sommi”. Esse sono i termini primitivi di un sistema di definizioni; come tali sono indefinibili e, dal punto di vista logico, in numero di dieci: sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, situazione, abito o avere, azione, passione. In altri luoghi Aristotele parla di otto predicati ultimi, sussumendo la “situazione” e l’“abito o avere” sotto le altre categorie 7, 8.

  4. La sostanza e i rapporti tra le categorie. Lasciando da parte la questione – su cui si è svolto un interminabile dibattito – se e in qual misura le categorie aristoteliche costituiscano un “sistema” e quale sia il criterio in base a cui esse vengono ricavate (l’ipotesi più plausibile, ma non sempre condivisa, è che la loro delineazione si avvalga di un filo conduttore logico-grammaticale: sostantivo, aggettivo, avverbio, verbo ecc.), due aspetti assumono particolare rilievo: in primo luogo, il fatto che l’essere non si predichi mai in forma categoriale, ma sia anzi un “trascendentale”, cioè un termine che attraversa tutte le categorie; in secondo luogo, che la sostanza occupi una posizione privilegiata 9.

Le ragioni di questa primarietà sostanziale sono riassumibili nel seguente modo.

  1. A differenza delle altre categorie, la sostanza è insieme attributo (essentia) e sostegno delle attribuzioni (soggetto, sostrato). Come “essenza” essa è la causa formale di un fatto, cioè la condizione della sua intelligibilità; come “sostrato” è invece la causa materiale, cioè la condizione della sua esistenza. La correlazione tra i due aspetti rende ragione della struttura totale delle sostanze prime intese come “sinoli”, ovvero unioni indissolubili di forma e materia. Si ricava da qui la dottrina statica della sostanza che ha la funzione di spiegarne la morfologia.
  2. Tutte le altre categorie possono predicarsi della sostanza, mentre la sostanza non può essere predicata di altre categorie, ma solo di se stessa 10.
  3. Se le altre categorie possono avere relazioni tra loro solo attraverso il comune riferimento a un’unica sostanza concreta o sinolo (relazioni interne, a garanzia della loro esistenza), le diverse sostanze possono invece avere relazioni reciproche solo attraverso la comune partecipazione a un’unica categoria, nel senso astratto del genere sommo (relazioni esterne, a garanzia della loro conoscenza, ma non dell’esistenza).
  4. Solo la sostanza può essere individuale, mentre le altre categorie non individuano mai il loro oggetto; quindi solo la sostanza ha un significato reale. Ora, poiché le categorie diverse dalla sostanza servono per “conoscere”, ne deriva che gli individui, cioè le sostanze prime, sono inconoscibili. In altri termini, la realtà concreta non è oggetto di scienza, ma si possono conoscere solo i generi e le specie.
  5. Le sostanze seconde (generi e specie) non possono includere, quanto all’esistenza, le sostanze prime. Un concetto di una cosa, per quanto ricco, non può mai implicare il fatto che tale cosa esista. Quindi l’esistenza non può mai essere un predicato dell’essenza, ma dev’essere una semplice posizione di realtà, data con la sostanza prima. Questo carattere non-concettuale dell’esistenza – come vedremo trattando della disputa sugli universali nel Medioevo – permette la confutazione di ogni argomento ontologico riguardo alla dimostrazione dell’esistenza di qualcosa, come Dio, che non può ridursi a un fatto.
  6. Il mutuo rapporto tra le categorie, non potendo essere né di inclusione né di identità, dovrà essere, per esclusione, di esclusione. Di qui nasce il divieto del passaggio (metábasis) da un genere all’altro, caratteristico della scienza aristotelica.
  7. Tutti i termini che stanno tra i due limiti indefinibili, cioè tra le categorie e gli individui, sono conoscibili attraverso la definizione. Quest’ultima è “il discorso che esprime l’essenza” e si compone di genere prossimo + differenza specifica. Per esempio, la definizione di “uomo” è: “animale razionale”. Infatti si può dire, per conversione, che “animale razionale” è “uomo”. Si noti che, in ogni definizione, soggetto e predicato si possono convertire: «uomo è animale» non è quindi una definizione perché non si può dire che «animale è uomo».

Ora, i singoli termini o concetti – siano essi denotativi o connotativi, categoriali o trascendentali ecc. – non sono mai veri o falsi. Il vero e il falso implicano infatti sempre un’unione o una separazione di concetti, cioè la considerazione della connessione predicativa come un tutto, e questo accade solo nel giudizio o nella proposizione, di cui tratteremo nella prossima lezione.


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La pratica dei concetti

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La pratica della lettura

4. La prima categoria: la sostanza

Nelle Categorie (5, 2 a 12 – 3 b 24) Aristotele affronta per la prima volta quello che apparirà come il concetto fondamentale sia della logica sia della metafisica: la nozione di sostanza. Essa rappresenta la prima categoria che, per la sua universalità e necessità, sorregge tutta la successiva articolazione categoriale. Tra le numerose caratteristiche “positive” della sostanza (la divisione tra sostanza prima e seconda, il discorso definitorio, la permanenza o “sostrato” ecc.) compare anche l’aspetto maggiormente problematico della sostanza come “individuo”, cioè il fatto che, essendo “prima”, essa non si possa compiutamente definire, ma rimanga sempre come il residuo inesauribile di ogni predicazione.

«“Sostanza” nel senso più proprio, in primo luogo e nella più grande misura, è quella che non si dice di un qualche sostrato, né è in un qualche sostrato, ad esempio, un determinato uomo, o un determinato cavallo. D’altro canto, sostanze seconde si dicono le specie, cui sono immanenti le sostanze che si dicono prime, ed oltre alle specie, i generi di queste. Ad esempio, un determinato uomo è immanente ad una specie, cioè alla nozione di uomo, e d’altra parte il genere di tale specie è la nozione di animale. Queste – ad esempio le nozioni di uomo e di animale – si dicono dunque sostanze seconde.

Da quanto si è esposto risulta d’altronde chiaro che tanto il nome quanto il discorso definitorio dei termini che si dicono di un sostrato vengono necessariamente predicati del sostrato. Così, il termine “uomo” si dice di un sostrato, ad esempio di un determinato uomo: di tale sostrato, certo, si predica il nome (di un determinato uomo, tu predicherai infatti il termine “uomo”), ma altresì il discorso definitorio del termine “uomo” verrà predicato di un determinato uomo. In effetti, un determinato uomo è tanto uomo quanto animale. Di conseguenza, tanto il nome quanto il discorso definitorio si predicheranno del sostrato. Per contro, non si predicano del sostrato, per la grande maggioranza dei casi, né il nome né il discorso definitorio degli oggetti che sono in un sostrato. Tuttavia, nulla impedisce in certi casi che il nome venga predicato del sostrato, pur essendo la cosa impossibile per il discorso definitorio; ad esempio, il bianco, che è in un sostrato, cioè nel corpo, viene predicato del sostrato (un corpo può dirsi infatti bianco), ma il discorso definitorio del bianco non si predicherà mai del corpo.

All’infuori delle sostanze prime, tutti gli altri oggetti o si dicono “di sostrati” ed allora si dicono delle sostanze prime, oppure sono “in sostrati” ed allora sono nelle sostanze prime. Ciò risulterà d’altronde chiaro dai singoli casi proposti come esempi. Così, la nozione di animale si predica della nozione di uomo, e di conseguenza, pure di un determinato uomo; se invero non si predicasse di nessuno dei singoli uomini, non si predicherebbe affatto neppure della nozione di uomo. [...]

D’altra parte, fra le sostanze seconde, la specie è sostanza in maggior misura del genere, dato che si approssima di più alla sostanza prima. Se qualcuno, difatti, deve spiegare che cos’è la sostanza prima, fornisce un elemento più noto e più proprio presentando la specie, piuttosto che non il genere; riguardo a un determinato uomo, ad esempio, dichiarando che è uomo si fornirà un elemento noto, più di quanto non si faccia dicendo che è animale: in realtà, il primo elemento è in maggior misura proprio di un determinato uomo, mentre il secondo ha un’estensione più grande. […]

Oltre a ciò, la ragione per cui le sostanze prime si dicono sostanze in massimo grado consiste nel fatto che esse stanno alla base di tutti gli altri oggetti, e che tutti gli altri oggetti si predicano di esse, oppure sussistono in esse. Orbene, precisamente allo stesso modo in cui le sostanze prime si comportano rispetto a tutti gli altri oggetti, così si comporta la specie rispetto al genere. In effetti, la specie è un sostrato del genere, dato che i generi si predicano delle specie, mentre le specie non si predicano inversamente dei generi. Anche per tali ragioni, dunque, la specie è sostanza in maggior misura del genere. Rimanendo d’altronde nel campo delle specie, tra quelle che non sono generi nessuna è sostanza in misura maggiore di un’altra. In realtà, attribuendo ad un determinato uomo la nozione di uomo, non si fornirà un elemento proprio, più di quanto si faccia attribuendo ad un determinato cavallo la nozione di cavallo. Allo stesso modo, del resto, tra le sostanze prime nessuna è sostanza in misura maggiore di un’altra: un determinato uomo è infatti sostanza in misura per nulla maggiore di un determinato bue.

È così giustificato, prescindendo dalle sostanze prime, che le specie ed i generi siano i soli tra gli altri oggetti a dirsi “sostanze seconde”: tra i predicati, in effetti, essi soli rivelano la sostanza prima. Se qualcuno invero deve spiegare che cos’è un determinato uomo, dà una spiegazione appropriata fornendo la specie oppure il genere; d’altra parte, dichiarando che tale oggetto è “uomo”, lo rende noto più di quanto non faccia dichiarando che è “animale”. […]

Alle sostanze seconde ed alle differenze appartiene poi il carattere di dar luogo a predicazioni, che vengono attribuite tutte quante in forma sinonima. Tutte le predicazioni, che provengono dalle sostanze seconde e dalle differenze, sono infatti attribuite o agli oggetti indivisibili o alle specie. In realtà, dalla sostanza prima non proviene alcuna predicazione, dal momento che essa non si dice di alcun sostrato; tra le sostanze seconde, per contro, la specie viene predicata dell’oggetto indivisibile, mentre il genere si predica sia della specie che dell’oggetto indivisibile. Allo stesso modo, poi, le differenze vengono predicate tanto delle specie quanto degli oggetti indivisibili. D’altro canto, le sostanze prime accolgono sia il discorso definitorio delle specie che quello dei generi, mentre la specie riceve quello del genere: in effetti, tutto ciò che si dice del predicato, si dirà pure del sostrato. Del pari, tanto le specie quanto gli oggetti indivisibili accolgono pure il discorso definitorio delle differenze. Senonché, “sinonimi” ci erano risultati quegli oggetti che hanno il nome in comune ed inoltre il medesimo discorso definitorio; di conseguenza, tutte le predicazioni, provenienti dalle sostanze seconde e dalle differenze, sono attribuite in forma sinonima.

Pare d’altronde che ogni sostanza debba esprimere un oggetto immediato. Da un lato, nel caso delle sostanze prime, è incontestabilmente vero che la sostanza esprime un oggetto immediato (la sostanza che rivela è infatti indivisibile e numericamente una); d’altro lato però, riguardo alle sostanze seconde, nonostante che la forma della denominazione – se qualcuno, ad esempio, parla di “uomo” o di “animale” – dia l’impressione che venga significato un oggetto immediato, ciò non è tuttavia vero, ed un termine cosiffatto significherà piuttosto una qualità. In effetti, il sostrato non è allora uno, come è una la sostanza prima; al contrario, la nozione di “uomo” e quella di “animale” si dicono di molti oggetti. D’altro canto, un termine cosiffatto non esprime semplicemente una qualità, come il bianco. Il bianco difatti non significa null’altro se non una qualità. La specie e il genere, invece, determinano la qualità riguardante la sostanza, dal momento che esprimono una sostanza che ha una certa qualità».

Aristotele, Categorie, trad. it. di G. Colli, in Opere, 1, cit., pp. 8-13.

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