Unità Aristotele

Lezione

Il mondo estetico, etico e politico

1. I fondamenti logici del sapere pratico

Nella suddivisione delle scienze, Aristotele distingue tra l’ambito della pura contemplazione o “teoretico” e l’ambito dell’azione o, in senso lato, “pratico”. Quest’ultimo si differenzia a sua volta in una prassi in senso stretto, che ha come oggetto la natura e la forma dell’agire in quanto fine in sé, e una prassi volta invece al fare (poietica), cioè alla produzione di oggetti. Mentre la scienza come conoscenza necessaria riguarda solo l’ambito teoretico e si fonda sulla logica della dimostrazione apodittica,  esiste anche una logica che sorregge il sapere che abbiamo chiamato in senso lato “pratico”, il quale non richiede una conoscenza rigorosa e necessaria, ma soltanto probabile e approssimativa, nella misura in cui si fonda su opinioni, tradizioni e valori assunti in base all’esperienza, alle convenzioni, agli accordi e alle credenze degli uomini 1. Il fatto importante è che, in primo luogo, questo sapere – benché inferiore per contenuto di verità rispetto all’ambito teoretico – mostra in ogni caso una sua struttura definita che si può in qualche modo “formalizzare” e, in secondo luogo, che questa formalizzazione è comune a tutto l’ambito pratico, in quanto unisce il sapere pratico in senso stretto (etico-politico) e la prassi, più ampia, che riguarda il sapere poietico (estetica, poetica e retorica).

La forma logica del sapere non-apodittico viene discussa da Aristotele in due opere dell’Organon: i Topici e gli Elenchi sofistici. Notiamo subito che questa logica, benché manchi di rigore scientifico nei suoi contenuti e nelle sue conclusioni (semantica), non manca affatto di rigore nella sua struttura formale (sintassi); essa infatti – come abbiamo visto (cfr. lezione 31) – si collega ai sillogismi di seconda e terza figura, dal momento che solo i sillogismi di prima figura conducono a prove o dimostrazioni autentiche.

La semantica che ne risulta è dunque, in generale, solo probabile o “analogica”, e si avvale di sillogismi dialettici nei quali l’inferenza è corretta, ma si ignora se le premesse siano vere. Tali sillogismi fanno dunque uso di “topici” o luoghi notevoli, cioè “quadri ideali” in cui rientrano gli argomenti di una discussione fondata su opinioni 2; le loro premesse vanno di conseguenza espresse al condizionale («se..., allora...»), per indicare che la conclusione non può essere “staccata” da esse. Ora, quando si entra nel campo del possibile, può anche accadere che ciò che sembra tale in realtà non sia, e che perciò si ragioni all’interno di un’apparenza per la quale manca un’istanza certa di controllo. Ne segue che un “luogo notevole” può essere utilizzato in un modo solo apparentemente corretto, nel quale non solo la semantica, ma anche la sintassi è dubbia e, talvolta, a un’analisi più approfondita, essa si rivela del tutto errata.

Abbiamo così: i sillogismi eristici, in cui le premesse sembrano – ma in real­tà non sono – fondate sull’opinione; i paralogismi, cioè ragionamenti errati basati su fallacie argomentative; infine i sillogismi retorici, che presentano “entimemi”, cioè strutture di argomentazione in cui si ignora non solo se la conclusione sia vera, ma anche se l’inferenza sia corretta.

Quest’ultima forma argomentativa collega la logica topico-dialettica all’estetica, che per Aristotele si articola nella poetica, o teoria dell’arte, e nella retorica, o teoria del discorso persuasivo. Infatti, l’arte e la retorica hanno la capacità di trasfigurare l’evento particolare sotto l’aspetto della possibilità o verosimiglianza, sganciandolo in tal modo dalla realtà empirica e facendogli assumere un significato “universale”.

Evidentemente, non si tratta di un universale logico, ma di un universale che sembra tale ed è perciò “simile al vero”; una sorta di universale concreto. Ora, anche l’irrazionale e l’impossibile possono apparire – alla luce dell’arte e della sua capacità imitativa – “simili” al vero: essi non sono certamente veri ma, appunto per la loro verosimiglianza, credibili. In questa dimensione, nota Aristotele, l’impossibile verosimile è da preferire al possibile non credibile. Si noti che la “credibilità” di una rappresentazione artistica o di un discorso retorico possiede comunque una sua razionalità e un “ordine” specifico, altrimenti risulterebbe incredibile. Quindi la struttura logica del fatto estetico, pur non essendo vera, manifesta una peculiare funzione di verità che consiste o nella sua utilità (pragmatica), oppure nell’imitazione della natura 3. Il primo aspetto trova espressione nella tragedia, che ha una funzione catartica, cioè liberatoria e purificatrice rispetto alle passioni negative; il secondo trova invece realizzazione nella concezione artistica del bello, che implica misura, proporzione, limite e simmetria 4.

1.La “filosofia pratica”

«È esatto, altresì, chiamare la filosofia scienza della verità. Infatti lo scopo ultimo dell’attività teoretica è la verità, come l’azione è lo scopo dell’attività pratica, giacché gli uomini d’azione, anche quando osservano il modo in cui stanno le cose, non si mettono a contemplare la causa in se stessa, ma ne scorgono solo la relazione con uno scopo e con una circostanza determinata». 
Aristotele, Metafisica, II, 1, 993 b 19 – b 23, trad. it. di A. Russo, cit., p. 50.


«Per quel che concerne le cose prodotte, il principio risiede nel producente, tanto se questo sia un intelletto quanto se sia un’arte o una qualche capacità, mentre, per quel che concerne le cose pratiche, il principio risiede nell’agente, ed è un atto di libera scelta, giacché l’oggetto dell’azione e quello della scelta si identificano». Aristotele, Metafisica, VI, 1, 1025 b 21 – b 25, trad. it. di A. Russo, cit., p. 174.

2.L’argomentazione dialettica

«È argomentazione un discorso nel quale, poste alcune cose, qualcosa di diverso da ciò che è posto necessariamente risulta mediante ciò che è posto. E così è dimostrazione quando l’argomentazione risulta da asserzioni vere e primitive, oppure da asserzioni tali che hanno il fondamento della conoscenza [...]; mentre argomentazione dialettica è quella che argomenta muovendo da opinioni notevoli. Sono asserzioni vere e primitive quelle che hanno la loro garanzia non per virtù d’altro, ma per se stesse [...]; sono opinioni notevoli invece quelle che costituiscono opinione di tutti, o dei più, o dei sapienti, e, se di questi, o di tutti, o dei più, o dei più noti e stimati fra tutti». Aristotele, I Topici, I, 1, 100 a 25 – b 24, trad. it. di A. Zadro, Loffredo, Napoli, 1974, p. 83.


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2. L’etica e la filosofia morale

Le nozioni di verosimiglianza, probabilità, possibilità, proporzionalità e credibilità, sostenute dalla forma logica dei sillogismi dialettici, stabiliscono relazioni strutturali tra il mondo estetico e il mondo etico, cioè il “sapere pratico” in senso proprio.

Per Aristotele – in modo simile al pensiero socratico-platonico – il sapere pratico, volto a esaminare la condotta individuale e sociale dell’uomo, si configura come la conoscenza dei fini dell’agire, nella misura in cui essi sono derivati dall’ideale che si assume come proprio dell’uomo, vale a dire dalla sua essenza o natura necessaria e immutabile. Non fa differenza che questi fini, corrispondenti al “bene”, siano considerati come trascendenti o immanenti: ciò che importa è che essi vengano intesi come valori in sé, dotati di una propria oggettività, realtà e perfezione e, come tali, siano indipendenti dagli atti (volontà, impulsi, desideri) rivolti a essi. In contrasto con quest’etica del fine, abbiamo visto che nel mondo culturale dei greci – e soprattutto presso alcuni sofisti (Prodico, Protagora) – è già presente un’etica che va alla ricerca dei motivi, cioè delle cause e delle forze che determinano la condotta, la quale risulta così vincolata agli atti e agli interessi particolari dell’esperienza umana. In questo caso, il bene non si presenta come un valore in sé, ma dipende dal movente dell’azione (utilità, vantaggio, piacere ecc.). Quest’ultimo non indica pertanto un dover-essere, ma solo un rapporto ipotetico-condizionale tra lo scopo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento (per esempio: «se vuoi ottenere vantaggi da x, onora x») 5.

Aristotele indica in generale il sapere pratico con il termine “politica”. Questa, a sua volta, si qualifica da una parte come etica o scienza del bene e, dall’altra, come politica in senso stretto o teoria dello Stato. In tale prospettiva, possiamo dire che l’etica aristotelica è subordinata alla politica, sebbene intesa in senso lato. Ciò dipende sempre dal fatto – peraltro tipico di tutto il pensiero classico – che non è possibile intendere l’uomo se non come cittadino. Il sapere pratico o politico deve quindi individuare il fine proprio dell’agire umano (il “bene in sé”) e i mezzi, sempre legati alla natura umana, per conseguirlo 6.

Ora, il fine ultimo o supremo dell’agire è per Aristotele la felicità (eudaimonía). Tutti gli uomini tendono alla felicità, ma non tutti sono d’accordo nello stabilire che cosa sia la felicità. Essa non può però identificarsi con il piacere, l’onore o la ricchezza, perché questi sono beni instabili, accidentali, i quali appaiono più come mezzi che come fini. Sebbene non vadano respinti, ma accolti e perseguiti nella giusta misura, essi devono in ogni caso dipendere da un fine superiore che sia intrinsecamente connesso alla natura umana, vale a dire – come la logica e la metafisica ci insegnano – alla ragione. La virtù propria dell’uomo è dunque “vivere secondo ragione”, e questo corrisponde precisamente alla gerarchia delle capacità che emergono dalla tripartizione dell’anima.

Posto infatti che l’anima vegetativa non rappresenti alcuna capacità peculiare dell’uomo e debba quindi essere esclusa da ogni considerazione etica, il discorso cambia del tutto per l’anima sensitiva e, in modo ancora più netto, per l’anima razionale. Nella trattazione della psicologia, abbiamo visto che sensibilità e intelletto concorrono insieme – sebbene con modalità distinte – alla costituzione della conoscenza, la quale non è altro che applicazione della ragione. È quindi lecito attendersi che il discorso etico riguardi entrambe le dimensioni psichiche. Tale “differenza” psichica corrisponde, sul piano della ragione pratica, a quella molteplicità dei significati dell’essere che abbiamo visto dispiegarsi sul piano della ragione teoretica.

In altri termini, anche la nozione di bene non è univoca, ma ha diversi significati: in particolare assume un significato differente a seconda che essa riguardi i sensi oppure la ragione. Infatti, i sensi danno origine alle azioni attraverso gli impulsi, le tendenze e le passioni, nei confronti dei quali la ragione esercita una funzione di dominio e di moderazione. Di conseguenza, Aristotele chiama (1) virtù etiche le condotte che corrispondono all’applicazione “esterna” della ragione, cioè finalizzata alla regolazione dei processi sensitivi; mentre definisce come (2) virtù dianoetiche le condotte propriamente razionali, corrispondenti all’applicazione “interna” e non sensibile della ragione. Vediamole più in dettaglio.

  1. Virtù etiche. Gli impulsi, le tendenze e i desideri che attraversano la vita umana sono numerosi e potenzialmente infiniti; essi inoltre dipendono dalla cultura, dal costume e dalle inclinazioni personali. Non si può pertanto offrire una scienza che si fondi sul riconoscimento intuitivo e universale dei principi morali che devono guidare la nostra esperienza. In questo caso – nota Aristotele – il bene si riconosce mediante l’educazione e l’induzione, il cui esercizio fa sorgere in noi l’abitudine a compiere buone azioni. Di conseguenza, le virtù etiche (coraggio, temperanza, liberalità, giustizia, e così via) derivano in noi da una pratica acquisita con l’esperienza stessa che è trascinata nel vortice degli impulsi e dei desideri. In questa prospettiva, l’abitudine esprime la capacità di realizzare, volta per volta, un buon costume rispetto ai casi particolari dell’esperienza.

    Ciò comporta che le virtù etiche non si generino in noi per natura, ma siano anzi “disposizioni”, ovvero capacità di indirizzare le passioni (desiderio, ira, amicizia, pietà) ai fini voluti e di risolverle, caso per caso, nel bene. Ora, il problema non è solo come acquistiamo queste virtù, ma in che cosa esse consistano. Le virtù etiche implicano la giusta proporzione tra l’eccesso e il difetto, ossia il giusto mezzo rispetto a sentimenti, passioni e azioni. Il “giusto mezzo” esprime l’affermazione etica della ragione. Per esempio, il coraggio è il giusto mezzo tra temerarietà e viltà; la temperanza è il giusto mezzo tra l’intemperanza e la dissolutezza.

    Si noti che simili virtù non sono valide sempre e ovunque, ma hanno come unica norma la “misura”. Tra di esse prevale la giustizia, che esprime il rispetto per le leggi dello Stato e copre l’intera area della vita morale. «Nella giustizia – dice Aristotele – è insieme compresa ogni virtù».

    Come tale, essa è la forma delle virtù etiche. Inoltre, la giustizia non sta per sé, ma si determina nell’istituzione giuridica, cioè nel complesso delle leggi (legislazione) che rappresentano la sua “materia”. Essa stabilisce una proporzione tra i membri della società: se la proporzione è geometrica, cioè se distribuisce a ciascuno dei membri rispetto ai suoi meriti in un’uguaglianza di rapporti (la ripartizione è dunque diseguale secondo la validità dei titoli, la dignità del pretendente e la giustificazione della pretesa), siamo di fronte alla giustizia distributiva. Se invece la proporzione è aritmetica, cioè si dà a ciascuno ciò che è dovuto in parti uguali (equidistanza dalla legge: ognuno è valutato per quel che ha fatto, indipendentemente dal suo status), siamo di fronte alla giustizia retributiva, detta anche “regolatrice” o “correttiva”. Naturalmente, sia la giustizia distributiva sia quella retributivo-correttiva possono contenere norme insufficienti nel caso specifico; esse devono perciò essere ricomprese in una forma di giustizia “superiore” in grado di cogliere, volta per volta, ciò che è equo e conveniente. L’equo è, in un certo senso, la correzione nel caso particolare del giusto legale: ogni legge è infatti universale e non è possibile in universale prescrivere rettamente intorno ad alcune cose o eventi particolari.

  2. Virtù dianoetiche. Mentre le virtù etiche si realizzano mediante la prassi empirica dell’abitudine, le virtù dianoetiche, corrispondenti alla parte razionale dell’anima, sono il frutto dell’esercizio e dell’applicazione del pensiero (diánoia). Tuttavia, il nostro pensiero può rivolgersi sia a oggetti necessari e sottratti al divenire – come le leggi logiche, gli aspetti formali delle cose o la natura divina – sia a oggetti sottoposti al divenire, sui quali possiamo intervenire trasformandoli o, addirittura, producendoli. Alla prima funzione oggettiva del pensiero corrispondono le virtù della ragione teoretica – intelligenza (nóus), scienza (epistéme) e sapienza (sophía) –, alla seconda corrispondono invece le virtù della ragione pratica in senso proprio, cioè in quanto capacità di operare: l’arte (téchne) e soprattutto la saggezza (phrónesis) 7. Si noti che l’aspetto teoretico, pur essendo qualitativamente superiore a quello pratico, è tuttavia ricompreso nella più ampia concezione dell’agire umano come una sua “facoltà”; anch’esso indica quindi un modo di “comportarsi” dell’uomo nei confronti del mondo.

    Se la virtù tipica della ragione teoretica è la sapienza, cioè la capacità di dedurre e giudicare la verità, la virtù che caratterizza la ragione pratica è la invece la saggezza. Essa consiste nel saper deliberare intorno a ciò che è bene o male per l’uomo, indicando i mezzi adeguati per il raggiungimento dei veri fini 8. Si noti che la deliberazione connessa alla saggezza non stabilisce quali siano i fini da raggiungere, ma solo che cosa dobbiamo fare per raggiungerli. Per individuare i giusti fini o per coglierli in modo corretto, sono infatti necessarie le virtù etiche, in grado di considerare i casi particolari e di decidere rispetto a essi. Questa stretta collaborazione tra la saggezza – una virtù dianoetica – e le virtù etiche ci rimanda direttamente alla questione dei fondamenti logici della ragione rivolta all’azione. Per deliberare e scegliere è invero sempre necessario un ragionamento, e ogni ragionamento tende alla conoscenza di una verità.

    Tuttavia, nella filosofia pratica la verità non è fine a sé stessa, ma solo un mezzo in vista dell’azione, che è sempre qualcosa di particolare e contingente. Ne consegue che il sapere legato alla prassi dovrà limitarsi a indicare ciò che è giusto e buono in generale, vale a dire quel “tipo” o schema fondamentale nel quale, perlopiù o verosimilmente, rientra il caso particolare.

    Un siffatto sapere tipologico, che si contrappone al rigore logico dell’epistéme, permette ad Aristotele di superare le difficoltà create dall’intellettualismo etico socratico-platonico, per il quale la conoscenza del bene costituiva la condizione necessaria e sufficiente per fare il bene. Secondo Aristotele, infatti, la conoscenza del bene – non “epistemica” ma, appunto, “tipologica” – è solo la condizione necessaria, benché non sufficiente, per agire in modo buono 9. Finché non intervengono la deliberazione e la scelta, che non sono condizioni di carattere teoretico bensì fronetico (cioè legate alla saggezza), il bene rimane nell’ambito dell’azione possibile (tipico-ideale), ma non si traduce in un’azione reale e concreta. A nulla, dunque, servirebbe conoscere il bene, se poi non si avesse anche la forza di metterlo in pratica 10.

In conclusione, la razionalità tipologico-dialettica che caratterizza la filosofia pratica è una forma di sapere euristico, cioè inventivo e creativo, in cui l’uni­versale non è già dato, ma va cercato per approssimazione a partire dal particolare. Per essere saggi non c’è bisogno di essere filosofi, mentre è necessario – come abbiamo visto – essere temperanti, coraggiosi e liberali; tutti caratteri che si ritrovano, per esempio, nei grandi uomini politici, come Pericle. Questo ci conduce direttamente alla questione “tecnica” della forma dello Stato.


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3. La filosofia politica

Per Aristotele, l’uomo è un “animale sociale”, assolutamente incapace di vivere isolato dagli altri. Tuttavia – coerentemente con gli ideali della pólis – la necessità che l’uomo ha di associarsi con gli altri uomini non è determinata solo da cause materiali (come la difesa personale, il procurarsi nutrimento e garantire la procreazione ecc.), ma soprattutto dal fatto che, come individuo singolo al di fuori della comunità, l’uomo non potrebbe mai realizzare la sua più intima natura, cioè lo sviluppo e l’esercizio della ragione.

Pertanto, anche se – come le parti che, messe insieme, compongono il tutto – l’istituzione politica dello Stato è di fatto conseguente all’associazione tra i cittadini, dal punto di vista razionale, cioè per principio, lo Stato è quell’intero che precede e condiziona le parti, conferendo a esse quel senso di elevazione spirituale della vita e dei valori morali che mai nessuno, singolarmente, potrebbe conquistare.

In realtà, esistono forme associative – come, per esempio, la famiglia e il villaggio – che precedono lo Stato e rimangono contenute in esso anche dopo la sua costituzione. Ma i bisogni che queste forme soddisfano sono legati alle necessità fisiche della vita oppure alla produzione tecnica di beni, vale a dire ad aspetti che hanno a che fare con i mezzi per vivere, non certo con i fini e i significati più profondi della vita stessa. Ora – nota Aristotele –, lo Stato non è fatto di individui che, come accade nella famiglia, hanno tra di loro un rapporto “naturale”, né di membri che, come nel villaggio, si associano per interessi particolari; ma è anzi composto di cittadini che prendono parte all’amministrazione della giustizia e alla formazione delle leggi, in una parola al governo della “cosa pubblica”. L’agire in pubblico, il corrispondere ai bisogni collettivi esprime, al tempo stesso, l’essenza della cittadinanza e la finalità dell’istituzione statale.

Questa finalità pubblica dello Stato può esprimersi in forme diverse, ossia secondo differenti assetti costituzionali. Gli scopi di una costituzione sono per Aristotele fondamentalmente due: a) determinare la sovranità; b) stabilire il funzionamento delle cariche.

La determinazione della sovranità è l’aspetto più importante perché ha a che fare con la detenzione del potere legittimo; è quindi in base al tipo di sovranità che si articolano le forme corrette o giuste dello Stato. In relazione al fatto che la sovranità sia esercitata da uno, da pochi o dalla maggior parte degli uomini, abbiamo rispettivamente: 1) la monarchia; 2) l’aristo­crazia; 3) la politia (politéia). La “correttezza” di tali forme – cioè il loro funzionamento – dipende dal fatto che, in ognuna di esse, il potere viene esercitato a favore di tutti, cioè in vista dell’interesse comune; quando invece il potere viene esercitato a favore di sé stessi, cioè per un interesse privato, allora sorgono le forme politiche degenerate o corrotte che sono, rispettivamente: 1) la tirannide; 2) l’oligarchia; 3) la democrazia o “demagogia”, in cui il potere della maggioranza – in generale povera e bisognosa – viene esercitato solo a favore della stessa maggioranza, scambiando così l’uguaglianza giuridica dei cittadini con l’uguaglianza sociale e antropologica 11, 12.

Ogni forma di governo, se esercitata in modo corretto, è per Aristotele legittima e “buona”. Tuttavia, la forma più conveniente, cioè di fatto migliore e preferibile, è la politia, in cui a governare è la moltitudine agiata corrispondente alla “classe media”, dotata di maggiore stabilità e disinteresse nell’attività di governo, nonché espressione di quella nozione di “misura” e di equilibrio tra gli estremi che percorre, da capo a fondo, l’intera visione filosofica di Aristotele.


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La pratica dei concetti

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La pratica della lettura

5. Giustizia distributiva e giustizia retributiva

Nell’Etica Nicomachea (V, 3, 1131 a 10 – 1132 b 9) Aristotele discute della giustizia, la più importante tra le virtù etiche (la loro “forma”) in quanto, derivando direttamente dall’osservanza delle leggi dello Stato, copre tutta l’area della vita morale. Come le altre virtù etiche, anche la giustizia implica il giusto mezzo tra eccesso e difetto; tuttavia, in aggiunta rispetto alle altre, essa stabilisce una proporzione tra i membri della società, proporzione che, secondo i fatti e i rapporti sociali considerati, potrà essere geometrica quando si tratta di “distribuire” a chi più merita onori e vantaggi (giustizia distributiva), mentre assumerà una forma aritmetica quando si tratta di riparare a un danno provocato o subìto (giustizia retributiva). Ora, entrambe le forme di giustizia non contengono norme sufficienti per consentire la scelta etica nei casi particolari. Nota infatti a tal riguardo la filosofa americana Martha Nussbaum (La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, ed. it. a cura di G. Zanetti, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 555): «Aristotele sostiene che chi tenti di decidere in ogni occasione appellandosi a certi principi generali considerati saldi ed inflessibili è come un architetto che tenti di usare una riga diritta per misurare le complesse curve di una colonna scanalata. Il buon architetto dovrebbe invece prendere le misure con una striscia flessibile di metallo che «si piega alla forma della pietra e non rimane rigida». La buona deliberazione, come questa riga, si adatta a ciò che trova, dimostrando sensibilità e rispetto per la complessità. Non presuppone che la forma della regola governi le apparenze; permette alle apparenze di governarsi da sole e di stabilire se la regola è corretta o meno».

«Poiché chi è ingiusto è iniquo, e ciò che è ingiusto è iniquo, è evidente che anche dell’iniquità vi è un giusto mezzo. E questo è l’equità: infatti in quelle azioni in cui v’è un più e un meno esiste anche l’equità. Se dunque ciò che è ingiusto è iniquo, ciò che è giusto è equo: e ciò appare a tutti anche senza ragionamento. E poiché l’equo è una posizione di mezzo, il giusto dev’essere pure una posizione di mezzo. L’equo presuppone poi almeno due termini. Necessariamente quindi il giusto, che è una posizione di mezzo ed è equo, è relativo a un oggetto e a delle persone; e in quanto è una posizione di mezzo, presuppone alcuni termini, cioè il più e il meno, in quanto è equo presuppone due persone, in quanto è giusto alcune persone. Necessariamente dunque il giusto comporta almeno quattro elementi: due sono infatti le persone per le quali si trova ad essere e due gli oggetti, rispetto ai quali può esistere.

E tale sarà l’eguaglianza: per le persone e nelle cose; e quali sono i rapporti tra le cose, tali dovranno essere anche quelli tra le persone: se infatti esse non sono eque non avranno neppure rapporti equi, bensì di qui sorgeranno battaglie e contestazioni, qualora persone eque abbiano e ottengano rapporti non equi oppure persone non eque abbiano e ottengano rapporti equi. Ciò è ancora evidente dal punto di vista del merito: tutti infatti concordano che nelle ripartizioni vi debba essere il giusto secondo il merito, ma non tutti riconoscono lo stesso merito, bensì i democratici lo vedono nella libertà, gli oligarchici nella ricchezza o nella nobiltà di nascita, gli aristocratici nella virtù. Quindi il giusto è, in certo senso, una proporzione.

Infatti la proporzione non è propria soltanto del numero aritmetico, ma in generale di ogni numero: la proporzione infatti è un’equità di rapporti e almeno tra quattro termini. E che la proporzione disgiunta abbia quattro termini, è evidente; ma ne ha quattro anche quella continua. Quest’ultima infatti usa un termine in due funzioni e lo ripete due volte; ad esempio, come A sta a B, così B sta a C. Quindi il termine B è ripetuto due volte, cosicché, se il B è posto due volte, quattro saranno i termini della proporzione. E anche il giusto si compone di almeno quattro elementi, e il rapporto è identico: sono infatti similmente distribuite le persone tra cui si svolge e i suoi oggetti. Si dirà dunque che il rapporto tra A e B si trova anche tra C e D e quindi, permutando, come A sta a C, così B sta a D. Quindi tale è anche il rapporto della somma alla somma: e la distribuzione combina i termini a due a due. E se essi sono giustamente combinati, l’addizione è giusta. Perciò l’accoppiare il termine A col termine C e B con D è giusto quanto alla distribuzione: e qui il giusto è il medio tra i due estremi che contrastano la proporzione: infatti la proporzione è un medio e il giusto è proporzione.

I matematici chiamano poi geometrica questa proporzione: infatti nella proporzione geometrica anche la somma sta alla somma come un termine sta all’altro. E questa proporzione non può essere continua: infatti non si può trovare un solo termine numerico per una persona e per una cosa. Il giusto infatti è questa proporzione, e l’ingiusto è ciò che contrasta la proporzione. Invero vi si distingue anche un più e un meno. E ciò accade nelle opere: chi infatti commette ingiustizia si attribuisce di più, chi subisce ingiustizia riceve di meno di ciò che è bene. In ciò che è male, invece avviene il contrario: il minor male è tenuto in conto di bene, il maggior male in conto di male. Infatti il male minore è preferibile a quello maggiore, e ciò che è preferibile è bene e tanto più grande bene quanto più lo è.

Dunque una specie di giusto è questa ora esaminata. Ve n’è poi un’altra ed è quella regolatrice, la quale si presenta nelle relazioni sociali, sia in quelle volontarie, sia in quelle involontarie. Questo giusto è di una specie diversa dalla precedente. Infatti la giustizia distributiva si manifesta sempre in conformità alla proporzione suddetta delle cose comuni [...]. Ciò che invece è giusto nelle relazioni sociali è una certa equità e l’ingiusto un’iniquità, non però secondo quella proporzione geometrica bensì secondo quella aritmetica. Infatti non v’è alcuna differenza se un uomo per bene ha rubato a un uomo dappoco o un uomo dappoco a uno per bene: né se chi ha commesso adulterio fosse un uomo per bene o un uomo dappoco; bensì la legge bada soltanto alla differenza del danno (e tratta le persone come eguali), cioè se uno ha commesso ingiustizia e un altro l’ha subita, se uno ha recato danno e un altro l’ha ricevuto. Cosicché il giudice si sforza di correggere questa ingiustizia, in quanto iniqua; e quando l’uno abbia ricevuto percosse e l’altro le abbia inferte, oppure anche uno abbia ucciso e l’altro sia morto, il subire e l’agire sono stati in rapporti d’iniquità: allora si cerca di correggerli con una perdita sottraendo così da ciò che era in vantaggio.

Si parla di vantaggio in tali cose solo in senso generale, anche se per taluni, come per chi ha percosso, la parola “vantaggio” non sia propria e così la parola “perdita” per chi ha subìto. Ma quando si voglia misurare ciò che si subisce, allora si può parlare di perdita e di vantaggio. Cosicché l’equo è il medio tra il più e il meno; il vantaggio e la perdita sono poi in senso opposto il più e il meno, il vantaggio è un più rispetto al bene e un meno rispetto al male, la perdita è il contrario: tra di essi l’equo è, come s’è detto, la via di mezzo ed è ciò che diciamo giusto: cosicché la giustizia correttiva sarebbe il medio tra il danno e il vantaggio. [...]

Quindi la giustizia, come pure il giudice, è qualcosa di medio. Il giudice poi eguaglia e, come se si trattasse di una linea tagliata in parti diseguali, toglie ciò per cui la parte maggiore supera la metà e l’aggiunge alla parte minore. Quando infatti il tutto è bipartito, si dice di avere la propria parte quando si prende una parte eguale. Perciò l’equo è il medio tra il più e il meno secondo la proporzione aritmetica. Per questo in greco esso è chiamato col termine “giusto” [díkaion], che è simile al termine “bipartito” [díchaion], proprio perché è diviso in due; e il termine “giudice” [dikastés] è simile al termine “bipartitore” [dichastés]. Se infatti, date due parti eguali, si toglie una certa quantità da una di esse e la si aggiunge all’altra, questa supererà la prima del doppio di tale quantità (se invece si sottraesse questa certa quantità alla prima parte, ma non la si aggiungesse all’altra, questa supererebbe la prima di questa sola quantità). Così essa supera il mezzo di una tale quantità e a sua volta il mezzo supera di una tale quantità la parte diminuita.

Con questo ragionamento dunque potremo scoprire che cosa bisogna sottrarre a chi ha di più e che cosa aggiungere a chi ha di meno: bisogna infatti aggiungere alla parte minore quel tanto di cui il mezzo è ad essa superiore, e togliere alla parte maggiore quel tanto di cui il mezzo è da essa superato. Siano eguali tra loro AA′, BB′, CC′. Si tolga da AA′ il segmento AE e si aggiunga a C′ un egual segmento, C′D. In tal modo la CC′D supera EA del segmento C′D più il segmento CZ, mentre supera BB′ del segmento C′D».

Aristotele, Etica Nicomachea, cit., pp. 113-118.

 


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