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Lezione

Il mondo psichico

1. La funzione della psicologia nel complesso della filosofia aristotelica

Nella trattazione della metafisica, abbiamo visto che Aristotele considera l’essere come una grande struttura organica, per analogia con le forme naturali e biologiche degli esseri viventi. Notiamo anzitutto che non si tratta di una similitudine con un semplice valore metaforico-simbolico, ma di un autentico paradigma esplicativo che egli introduce per fornire un’adeguata risposta ad alcuni problemi di fondo che affiorano nella sua ontologia. L’essere è materia permeata di forma, e la forma è vita. Da questo punto di vista, la biologia o concezione del “mondo vivente”, di cui la psicologia o “dottrina dell’anima” costituisce l’asse portante e che, a sua volta, fa parte dell’indagine fisica, rappresenta quel compimento della metafisica in mancanza del quale la teoria della sostanza risulterebbe incomprensibile 1.

Il problema fondamentale, lasciato irrisolto dalla dottrina delle categorie e dalla relativa concezione della conoscenza, è infatti quello delle sostanze prime o individui.

Pur essendo le vere sostanze reali, degli individui non si dà propriamente alcuna scienza, poiché l’analitica aristotelica, basata sulle nozioni estensionali di “genere” e “specie”, non è in grado di chiudere apofanticamente, cioè attraverso la definizione logica di un principio d’individuazione, il discorso intorno alla sostanza. In tale prospettiva, la logica delle classi fornisce solo un criterio d’identificazione delle sostanze prime: ci dice, per esempio, a quale specie o classe appartiene Socrate, ma non chi è Socrate. Nemmeno il linguaggio, pur essendo in diretta connessione con l’esperienza particolare, è in grado – attraverso la sua funzione deittica o indicativa esemplificata dalla locuzione “questo qui” – di adempiere un simile compito; il linguaggio può certo aiutarci a circoscrivere il senso del discorso intorno a un individuo, ma non dirci ciò di cui si tratta.

Ora, secondo Aristotele solo la psicologia, fondata sul nucleo dell’esperienza sensibile, può offrire il complemento necessario riguardo al principio d’individuazione sostanziale. Essa assume dunque un’importanza decisiva all’interno della più generale impostazione filosofico-teoretica.


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2. Origini e caratteri dell’indagine psicologica: ileomorfismo e strumentalismo

Si tratta quindi di procedere non da un modo di dire o da uno schema metafisico verso una realtà oggettiva esterna e ineffabile, ma viceversa di ripercorrere il cammino naturale che dal movimento e dalla sensazione conduce all’intelletto. La sensazione diventa così l’interfaccia di uno scambio continuo di informazioni tra il mondo esterno e la psiche. E non è difficile trovare la sede di questa funzione intermedia: essa si dà già a livello del mondo fisico, nella distinzione tra esseri inanimati (non viventi) e animati (viventi).

Come principio di vita, l’anima si inserisce infatti a pieno titolo nella struttura ileomorfica della realtà: posto che tutte le cose sono unioni di materia (potenza) e forma (atto), e dato che il corporeo corrisponde all’aspetto materiale e potenziale, l’anima è quella sostanza che si presenta come forma o atto di un corpo vivente, e precisamente – secondo la definizione che Aristotele ci presenta nel suo maggiore scritto psicologico, il De anima – è la «forma di un corpo naturale che ha la vita in potenza» 2.

Un siffatto ileomorfismo – che si collega a un’altra definizione, presente soprattutto nelle prime fasi costitutive della psicologia aristotelica e contenuta negli scritti biologici sul movimento e sulle parti degli animali, vale a dire lo strumentalismo, secondo cui l’anima si serve del corpo come di un suo “strumento” – ha due importanti conseguenze: 1) sottrae l’anima alla collocazione fisica e meccanica tipica del naturalismo presocratico, conferendole una connotazione formale e immateriale; 2) al tempo stesso, la fa corrispondere all’unità sostanziale – in senso psicofisico – dell’individuo, evitando così il dualismo con l’aspetto corporeo-materiale. Tutto ciò permette di concepire l’anima come trascendente e insieme immanente rispetto al corpo, di cui essa esprime da un lato la perfezione e il fine, dall’altro il principio intrinseco e informante, inseparabile dal corpo stesso. Si noti infatti che la tesi ileomorfica non consente, per definizione, di concepire l’anima in modo diviso dal corpo 3; d’altra parte, per il principio della verità come corrispondenza, nell’anima dev’esserci qualcosa di irriducibile alla contingenza della materia corporea, altrimenti non riusciremmo a conoscere gli oggetti immateriali ed eterni, come Dio e le forme pure, che rispecchiano le verità necessarie della natura.

Quest’ultimo argomento ci consente di introdurre la questione – sviluppata nel De anima – riguardo alle funzioni dell’anima, cioè intorno a quelle operazioni o attività che caratterizzano il modo d’essere delle forme viventi e che, in una scala gerarchica dalle funzioni più semplici ed elementari alle più complesse e astratte, giungono fino a interessare l’uomo. Similmente a Platone, anche Aristotele distingue tre parti dell’anima ma, diversamente da Platone, il suo criterio di suddivisione non è legato a principi di ordine etico-morale, bensì esclusivamente biologico-psicologico 4. In tal senso, Aristotele rivendica la piena autonomia epistemica dell’indagine psicologica, rendendola il fondamento ultimo di ogni conoscenza.

Allo stesso modo di ogni sostanza, anche l’anima ha, come sue “parti”, degli attributi sostanziali o “necessari” che presiedono al funzionamento delle diverse operazioni vitali. Essi sono, rispettivamente: a) la parte vegetativa, a cui spetta la regolazione della nascita, della nutrizione, della crescita e della riproduzione; b) la parte sensitiva e motoria, da cui provengono le sensazioni e i movimenti del corpo; c) la parte intellettiva o razionale, che determina il pensiero, la speculazione e l’elaborazione concettuale. Queste parti – in realtà “funzioni” dell’anima – sono ordinate secondo una scala gerarchica di esclusione/inclusione che va dalla natura più semplice a quella più complessa e immateriale. Infatti, mentre i termini inferiori possono sussistere da soli e presentano una maggiore autonomia e una minore inclusione, i termini superiori presuppongono ciò che è al di sotto di essi, includendo i gradi precedenti senza escluderne alcuna funzione. Di conseguenza, così come non si dà intelligenza senza nutrizione e sensazione, quest’ultima non è possibile senza nutrizione; ma la nutrizione può stare a sé.

Infine, un aspetto di grande rilievo nella suddivisione della psicologia aristotelica è il fatto che il criterio di distinzione non sia di tipo qualitativo, bensì operativo; in altri termini, per Aristotele – il quale si avvicina a tal riguardo alla concezione di Anassagora – ogni parte ha la qualità del tutto, sebbene in modo solo potenziale o inespresso 5. Ciò testimonia, anche a livello biologico, la continuità dell’essere.

4.La psicologia in Platone e in Aristotele

Caratteri psicologici Platone Aristotele
Impostazione generale
  • Dualismo radicale: trascendenza e idealità
  • 1° periodo psicobiologico: strumentalismo
  • 2° periodo psicologico: ileomorfismo
Rapporto anima-corpo
  • Unione accidentale
  • Separazione
  • Distinzione sostanziale
  • Dualismo moderato
  • Relazione meccanico-vitalistica mezzo-scopo
  • Unione sostanziale (sinolo)
  • Relazione vitalistica immanente forma-materia
  • Dualismo anima sensitiva/intelletto separato o “agente”
Durata dell’anima
  • Preesistenza e immortalità, sia individuale sia cosmica
  • Progressivo abbandono dell’immortalità
  • Immortalità non individuale, ma riservata solo alla parte dell’intelletto separato
Criterio di tripartizione dell’anima
  • Etico-morale
  • Metafisico
  • Qualitativo
  • Biologico
  • Funzionale
  • Strumentale
  • Biologico
  • Metafisico
  • Operativo
Ruolo della sensibilità
  • Poco rilevante
  • Negativo
  • Strumentale
  • Transitorio
  • Essenziale
  • Capacità immaginativa
open

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3. La sensazione e l’intelletto

Licenziata mediante brevi osservazioni la questione dell’anima vegetativa, cioè del principio più generale e più elementare della vita che verte intorno al processo di nutrizione come “assimilazione del dissimile”, Aristotele concentra la sua attenzione sulla sensazione e sull’intelletto, che insieme spiegano gran parte delle funzioni conoscitive umane. Sensazione (o sensibilità) e intelletto hanno sia caratteri comuni, sia caratteri specifici e indipendenti. In comune essi hanno il carattere transiente dell’attività psichica, vale a dire il fatto di essere sempre “rivolti a un oggetto”. Un simile rivolgimento è fondamentale per qualificare la stessa attività psichica, poiché questa non dipende solo dalla funzione soggettiva o “facoltà” dell’anima, ma anche dal tipo di oggetto a cui si relaziona. Di conseguenza, ogni funzione ha un oggetto “proprio” che non può essere scambiato con l’oggetto di un’altra funzione.

La transitività dell’anima è il carattere decisivo della psicologia aristotelica, nella misura in cui prefigura quella che, nel pensiero moderno, verrà definita come l’intenzionalità o trascendenza della coscienza: ogni coscienza è, cioè, sempre “coscienza di qualcosa”. Si noti anche che, non esistendo un fondamento della coscienza indipendente dalle attività psichiche che la contraddistinguono, una pura autocoscienza o “riflessione totale” è impossibile, poiché noi siamo solo indirettamente consapevoli di quel che ci accade attraverso le operazioni compiute sugli oggetti, trasformandoli secondo la sensibilità, la volontà e il pensiero. Ciò che possiamo rilevare non è quindi l’autocoscienza, ma la presenza di un operare intelligente. Veniamo ora ai caratteri specifici.

  1. La sensazione. Per Aristotele non esistono idee o principi innati. Tutto comincia dalla sensazione, che, in quanto percezione attuale, è infallibile. La sensazione non rappresenta una semplice modificazione meccanica indotta dal sensibile (ossia dall’oggetto sentito) nel senziente (ossia nell’organo o nella facoltà sensitiva). Essa non si può nemmeno spiegare come una percezione del simile da parte del simile o del dissimile da parte del dissimile – così come l’avevano precedentemente intesa Empedocle, Anassagora e Democrito. Essa può infatti considerarsi un’alterazione, ma non in senso puramente passivo (meccanico), bensì attivo, ossia come passaggio della facoltà sensitiva dalla potenza all’atto per via di un contatto con l’oggetto sensibile. La sensazione si configura quindi come un processo di assimilazione, vale a dire come un passaggio dal dissimile al simile, per cui ciò che prima era distinto (la facoltà e l’oggetto percepito) diventa ora formalmente simile (ossia la facoltà si “assimila” alla cosa percepita) 6. La differenza con la nutrizione è costituita dal fatto che nella sensazione l’assimilazione non è estesa alla materia, ma riguarda – appunto – solo la forma dell’oggetto percepito. In virtù di quest’assimilazione, ciò che era in potenza nell’oggetto come possibilità di essere percepito, e nella facoltà stessa come possibilità di percepire, trapassa nell’atto, sicché la sensazione appare – in definitiva – come un atto comune del sensibile e del senziente. Quest’atto comune esprime, in forma sintetica, la correlazione tra una realtà fisica e una realtà psicologica le quali, fuori da tale correlazione, rimangono mere potenzialità.

    In quanto capace di assimilazione degli stimoli oggettuali, l’anima sensitiva presenta una struttura gerarchizzata. Infatti, oltre ai cinque sensi specifici (vista, gusto, olfatto, udito, tatto), essa comprende anche una sorta di “sesto senso” o senso comune generalizzato, a cui si aggiungono l’immagina­zione, la memoria e, infine, una facoltà elementare di riconoscimento o “discriminazione” delle varie sensazioni. Per quanto riguarda i sensi specifici, la loro distinzione è indotta dagli oggetti sensibili “propri”, che modificano un solo senso (per esempio, il colore per la vista), mentre il senso comune è dovuto all’esistenza di sensibili comuni a più sensi, come il movimento, la figura, il volume ecc. Di conseguenza, tranne il tatto – che è in grado di percepire più qualità –, gli altri sensi riguardano solo una qualità o, meglio, una coppia di contrari, ognuno dei quali costituisce una specie di “medietà”, in grado di svolgere una funzione di arbitraggio. Il senso comune, invece, non necessita come gli altri sensi di un proprio organo per sentire, ma si avvale degli altri organi.

    La sua importanza consiste nel presentare, già a livello sensibile, una prima ed elementare facoltà di giudizio e di riconoscimento che si collega all’immaginazione (phantasía): quest’ultima mostra infatti, accanto a un aspetto passivo o riproduttivo, una capacità attiva o produttiva che consente di “interpretare” le sensazioni.

    Infine, l’anima sensitiva non presiede solo alle facoltà teoretiche della percezione e dell’immaginazione, ma anche a quelle pratiche dell’appetito, del desiderio e del movimento. In particolare, il desiderio tende a configurare intellettualmente l’azione secondo lo schema razionale di un sillogismo pratico. L’azione appare infatti come la conclusione di un processo operativo a partire da premesse che – in modo analogo all’affermazione e alla negazione – si pongono in una condizione desiderativa (positiva) o avversativa (negativa).

  2. L’intelletto 7. Come si dà un’eccedenza della vita sensitiva rispetto alla vita semplicemente vegetativa, così si dà un’eccedenza della vita intellettiva rispetto alla vita sensitiva, a cui essa è peraltro congiunta tramite l’immagina­zione. Questa corrispondenza con la sensibilità si ha anche per quanto riguarda il rapporto con l’oggetto: l’intelletto è assimilativo, ovvero ricettivo della forma intelligibile, indipendentemente dalla quale non è nulla. Tuttavia l’intelletto, come puro atto del pensare, indica una facoltà immateriale che non abbisogna – come la sensibilità – di un suo organo percettivo per conoscere, né di alcun diretto “contatto” con gli oggetti.

    Per spiegare la conoscenza intellettuale senza contatto con l’oggetto né supporto “materiale” esterno, Aristotele ricorre, ancora una volta, alla dottrina della potenza e dell’atto. Prima di conoscere, l’intelletto è in potenza le forme ancora incluse nel sensibile, così come una tavoletta di cera contiene potenzialmente ciò che deve esservi scritto; solo quando perverrà a possederle in atto esso conoscerà tanto il sensibile (essendo il superiore inclusivo anche dell’inferiore) quanto le forme intelligibili. Ora, che cosa consente il passaggio dall’intelletto in potenza alla conoscenza effettivamente in atto? Lo schema che applica Aristotele è sempre il medesimo: ciò che è potenziale diventa attuale per via di qualcosa che è già in atto; per esempio, un seme diventa pianta solo se sono in atto le condizioni (sostanze nutritive, clima ecc.) che ne permettono lo sviluppo.

    Da qui la fondamentale distinzione – frutto di infinite discussioni tra gli interpreti – tra l’intelletto attivo o “produttivo” e l’intelletto passivo: il primo identificato con la forma e la causa efficiente che, come la luce per gli oggetti visibili, traduce in atto il conoscibile; il secondo assimilato invece alla “materia” del conoscibile, nella sua “disposizione” a diventare tutte le cose 8.

    Le caratteristiche che Aristotele attribuisce all’intelletto attivo – in particolare la separatezza, l’impassibilità e la pura attualità – hanno fatto pensare a una sua identificazione con il principio divino nell’uomo. Ora, ciò può valere solo nella misura in cui anche il divino non è per Aristotele completamente separato dal mondo e dalla sensibilità, ma è anzi unito a essi da un rapporto paronimico di “riferimento a uno”, al tempo stesso immanente e trascendente. D’altra parte, bisogna tener presente che il compito dell’intelletto attivo non è quello di creare ex nihilo le forme intelligibili, bensì quello di attualizzare le forme che provengono dal sensibile tramite l’immaginazione. Infatti, l’attività intellettiva, pur distinguendosi in due gradi – uno di tipo intuitivo, infallibile, e uno di tipo discorsivo, fallibile –, opera sempre in presenza di immagini, e non può quindi mai prescindere dal riferimento al sensibile.

In conclusione, poiché la conoscenza intellettuale “attualizza” ciò che è già contenuto in potenza nel sensibile, in Aristotele troviamo prefigurata – anche se non conseguentemente sviluppata – una dottrina delle forme pure della sensibilità che rifiuta qualsiasi genere di conoscenza a priori, ma non per questo si affida a una mera ricognizione empirica a posteriori, destinata per la sua stessa natura a non condurre mai all’universalità dei concetti.

Potremmo anzi dire che la concezione aristotelica delle forme sensibili testimonia non solo la presenza di un momento intellettuale-intuitivo (“noetico”) fin nelle più riposte radici dell’esperienza, ma che l’intelletto stesso – come afferma Aristotele – opera a somiglianza dell’arte nei confronti della materia, cioè non come semplice “estrazione” formale, ma come un’autentica produzione, in cui è l’oggetto, in quanto scopo dell’azione, a dettare l’estensione e i confini del suo significato per la conoscenza. La ricezione delle forme non va dunque intesa, empiristicamente, come una mera “passività”, né l’attualizzazione costituisce, idealisticamente, un’attività originaria, come se l’intelletto attivo fosse una sorta di intelletto archetipo, cioè “creatore”.

Per Aristotele, la forma è sempre l’attributo di una sostanza e, nella fattispecie, una proprietà fisica di un oggetto reale. Tuttavia, se non viene sottoposta a un’attualizzazione, ossia inserita in un rapporto funzionale con l’anima, dal punto di vista conoscitivo essa rimane sempre potenziale, vale a dire inespressa e senza significato.

L’unità psicofisica dell’essere vivente, così delineata da Aristotele, richiede dunque una concezione dinamica e relazionale dell’essere 9. Tuttavia – a differenza di Platone – tale relazionalità è ottenuta per via esclusivamente logico-apofantica, cioè attraverso una dimensione fondamentalmente statica, essenzialistica, non sempre in grado – tanto nell’ontologia quanto nella psicologia – di ricomporre quel dualismo che continuamente riaffiora tra termini per definizione contrapposti, come intelletto e sensibilità, materia e forma, Dio e mondo, potenza e atto.


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La pratica della lettura

5. L’unità psico-somatica dell’essere vivente

Il brano seguente (L’anima, II, 412 a 20 – 414 a 28) costituisce l’immediata continuazione del testo su “L’anima è vita” a p. 474. In esso Aristotele sviluppa la sua tesi fondamentale, secondo cui «l’anima è la forma di un corpo naturale che ha la vita in potenza», ponendo la sostanzialità psichica in relazione alla teoria della potenza e dell’atto. In questo senso, l’anima può essere “forma” di un corpo in quanto atto che determina l’unità dell’essere vivente, il quale, senza l’anima, verrebbe consegnato alla mera potenzialità della materia. Troviamo qui adombrata la concezione che tanta fortuna avrà nel naturalismo aristotelico tardo-medievale e rinascimentale, vale a dire l’unità psicosomatica dell’animale come “totalità organica”, le cui parti si trovano in un rapporto di dipendenza funzionale rispetto alla forma sostanziale dell’intero essere vivente.

«L’anima è sostanza, nel senso che è forma di un corpo naturale che ha la vita in potenza. Ora tale sostanza è atto, e pertanto l’anima è atto del corpo che s’è detto. Atto, poi, si dice in due sensi, o come la conoscenza o come l’esercizio di essa, ed è chiaro che l’anima è atto nel senso in cui lo è la conoscenza. Difatti l’esistenza sia del sonno che della veglia implica quella dell’anima. Ora la veglia è analoga all’uso della conoscenza, mentre il sonno al suo possesso e non all’uso, e primo nell’ordine del divenire rispetto al medesimo individuo è il possesso della conoscenza. Perciò l’anima è l’atto primo di un corpo naturale che ha la vita in potenza.

Ma tale corpo è quello che è dotato di organi [...]. Se dunque si deve indicare una caratteristica comune ad ogni specie di anima, si dirà che essa è l’atto primo di un corpo naturale dotato di organi. Pertanto non c’è bisogno di cercare se l’anima e il corpo formano un’unità, allo stesso modo che non v’è da chiedersi se formano un’unità la cera e la figura né, in generale, la materia di una data cosa e ciò che ha per sostrato tale materia. Se infatti l’uno e l’essere hanno molti significati, quello principale è l’atto.

S’è dunque detto, in generale, che cos’è l’anima: essa è sostanza nel senso di forma, ovvero è l’essenza di un determinato corpo. Così se uno strumento, ad esempio una scure, fosse un corpo naturale, la sua essenza sarebbe di essere scure, e quest’essenza sarebbe la sua anima. Tolta questa essenza, la scure non esisterebbe più se non per omonimia. Nel nostro esempio si tratta però soltanto di una scure. In effetti l’anima non è l’essenza e la forma di un corpo di quella specie, ma di un determinato corpo naturale, che ha in se stesso il principio del movimento e della quiete.

Ciò che s’è detto si deve applicare anche alle parti corporee. Se infatti l’occhio fosse un animale, la sua anima sarebbe la vista, giacché questa è la sostanza dell’occhio, sostanza in quanto forma (mentre l’occhio è la materia della vista). Se quest’essenza vien meno, non c’è più l’occhio se non per omonimia, come l’occhio di pietra o dipinto. Ora ciò che vale per una parte bisogna estenderlo all’intero corpo vivente. Difatti la relazione esistente tra parte e parte è analoga a quella che intercorre tra l’intera facoltà sensitiva e l’intero corpo senziente in quanto tale. D’altronde non è il corpo che ha perduto l’anima quello che è capace di vivere, ma quello che la possiede, mentre il seme ed il frutto costituiscono ciò che è in potenza un corpo di tale specie. Allora, come il fendere e il vedere sono atto, così lo è la veglia, mentre l’anima è atto al modo della facoltà di vedere e della capacità dello strumento.

Il corpo, poi, è ciò che è in potenza, e come la pupilla e la vista formano l’occhio, così, nel nostro caso, l’anima e il corpo formano l’animale. È quindi manifesto che l’anima (o alcune sue parti, se per sua natura è divisibile in parti) non è separabile dal corpo, giacché l’attività di alcune sue parti è l’atto delle corrispondenti parti del corpo. Ciononostante nulla impedisce che almeno alcune parti siano separabili, in quanto non sono atto di nessun corpo. [...]

Per questo motivo è esatta l’opinione di coloro i quali ritengono che l’anima non esista senza il corpo né sia un corpo. In realtà non s’identifica col corpo, ma è una proprietà del corpo. Pertanto esiste in un corpo, ed anzi in un corpo di una determinata specie, e non come credevano i nostri predecessori, che la facevano entrare nel corpo, senza determinare la natura e la qualità di esso, benché non si verifichi mai che una cosa qualunque accolga una cosa qualunque. Ed è ragionevole che così avvenga, giacché l’atto di ciascuna cosa si realizza per sua natura in ciò che è in potenza e nella materia appropriata. Da quanto precede è chiaro, dunque, che l’anima è un certo atto ed essenza di ciò che ha la capacità di essere di una determinata natura».

Aristotele, L’anima, cit., pp. 137-142.

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