Unità Aristotele

Lezione

Le critiche a Platone, lo spirito di sistema e l’indagine scientifica della natura

1. Il dissidio con Platone e le critiche alla dottrina delle idee

Nella lezione precedente abbiamo accennato al fatto che Aristotele, benché formatosi all’interno dell’Accademia platonica, manifestò precocemente le sue divergenze rispetto ai dettami del platonismo. Nel corso della storia, le ragioni di questo dissidio sono state spesso amplificate e fraintese al punto da renderle motivo di inimicizia personale tra i due filosofi. Così, per esempio, durante il Rinascimento la polemica fra platonici e aristotelici tradusse frequentemente l’opposizione tra il maestro e l’allievo in accuse di ingratitudine di Aristotele verso Platone o di invidia di Platone nei confronti della giovane e lucida mente aristotelica.

Si tratta ovviamente di polemiche funzionali all’epoca, in gran parte infondate e che, in ogni caso, hanno poco a che vedere con i ben più rilevanti contenuti teoretico-filosofici dello scontro dottrinale, che possiamo sintetizzare nel modo seguente.

  1. Scienza della natura vs. scienza del bene. A differenza di Platone, addestrato all’insegnamento dialettico-politico di Socrate, Aristotele mostra un orientamento fin dall’inizio naturalistico, volto alla descrizione e classificazione dei fenomeni, i cui principi egli ricerca all’interno della realtà sensibile. L’oggetto della conoscenza è questa stessa realtà, che può essere analiticamente scomposta in enti individuali, generi e specie, ma sempre a livello del mondo fenomenico.

    A un simile realismo moderato o empirico, in base al quale l’essere è tale distributivamente, cioè rispetto agli enti individuali e agli aspetti generali (universali) che, esistendo esclusivamente nell’individuale, possono essere unificati solo logicamente – per cui, per esempio, “uomo” come significato della sostanza ha almeno due distinti riferimenti: l’individuo e la specie –, fa da contraltare l’idealismo platonico, che si presenta come un realismo assoluto o iperrealismo in cui l’idea è la vera realtà e l’individuale o fenomenico non è una realtà inferiore, di secondo grado, ma è reale solo in quanto “partecipa” dell’idea come sua immagine o copia. Qui il termine “uomo” ha un unico riferimento poiché l’oggetto di conoscenza è univoco, vale a dire l’idea come essere necessario e normativo; tuttavia, dal punto di vista logico esso può avere una funzione collettiva, ossia indicare ciò che vi è di comune a un insieme di individui. A differenza di Aristotele, lo scopo della conoscenza è per Platone sempre normativo: “conoscere” infatti non significa solo cogliere l’essenza dei fenomeni, ma anche il loro valore, vale a dire in quale misura essi partecipano dell’idea e, in particolare, del bene 1.

  2. Razionalità molteplice vs. razionalità univoca. Tale diversa impostazione è alla base di tutte le “incomprensioni” e quindi anche delle critiche di Aristotele al platonismo. Così, per esempio, Aristotele vede nella dottrina delle idee un modo per rifiutare lo studio scientifico della natura, dato che ogni ente viene ridotto a una forma razionale di tipo matematico-intuitivo. Questo rifiuto si congiunge inoltre a un altro problema evidenziato da Aristotele, cioè l’univocità della ragione: mancando il senso dell’autonomia del reale e dei suoi diversi “ambiti”, nel platonismo esiste un’unica forma di razionalità, quella teoretico-pratica della conoscenza ideale, mentre – come vedremo – per Aristotele è necessario distinguere la sfera razionale della teoria sia dall’ambito pratico-razionale dell’agire etico-politico, sia dallo spazio produttivo del fare, tipico delle diverse “arti” (molteplicità della ragione).

  3. Le idee come “duplicato” della realtà. Aristotele entra nell’Accademia quando la fase di revisione del platonismo originario, arroccato sul dualismo tra anima e corpo, mondo ideale e mondo sensibile ecc., è già iniziata ma non ancora compiuta né consolidata. Egli perciò, insistendo sul concetto platonico di “separazione” tra idee e realtà fenomenica, non è in grado di cogliere nelle idee dei criteri di spiegazione del reale, ma solo un inutile “raddoppiamento” del reale stesso. In effetti, se si tratta di spiegare come si rapportano tra loro gli enti sensibili, che cosa essi hanno in comune ecc., sembra assurdo affrontare la questione su un piano come quello ideale in cui vengono ammesse altre “entità” – per l’appunto le idee – tra le quali si ripresentano i medesimi problemi del mondo sensibile. Da qui anche la critica aristotelica a ogni vano tentativo platonico di voler ricercare l’unità dopo aver presupposto la separazione tra i due “mondi”, così come il rifiuto di qualsiasi rappresentazione mitica dell’essere – per esempio nel Timeo, da cui pure Aristotele trae conoscenze scientifiche e astronomiche –, in quanto tentativo non compiutamente razionale di spiegare il rapporto del sensibile con l’idea.

  4. Logica e pensiero analitico vs. dialettica e pensiero sintetico. Al di là delle divergenze in merito ai contenuti, ciò che Aristotele maggiormente rimprovera al platonismo è la mancanza di un rigoroso metodo scientifico che possa servire da guida della conoscenza. Secondo Aristotele, la dialettica platonica a “due termini” o “diairetica” non è affidabile per due ordini di ragioni: 1) è circolare, cioè non favorisce né giustifica la scelta di un termine, ma la presuppone, per cui essa non offre spiegazioni ma solo esplicitazioni; 2) ricorre continuamente all’ipotesi, all’induzione e all’intuizione, cioè a procedimenti o atti che portano a ritornare continuamente sulle assunzioni di partenza attraverso un movimento ascensivo-discensivo o a “zig-zag” estraneo alla dimostrazione causale di tipo lineare e deduttivo, su cui dovrebbe invece fondarsi ogni autentico ragionamento scientifico. Si tenga presente che Aristotele non rifiuta l’induzione, ma solo il suo carattere sintetico, che deriva dal metodo socratico di “riduzione” di diverse tesi alla questione fondamentale («che cos’è x?»).

    Egli è invece favorevole a un’induzione di tipo analitico, estranea al platonismo: poiché l’idea – intesa ora aristotelicamente come “forma” – non è più trascendente, ma immanente alla realtà sensibile, l’induzione coincide con il processo di astrazione o, meglio, di “estrazione” da parte dell’intelletto della “forma” universale inclusa nella cosa individuale. Con l’astrazione, l’anima entra in possesso dei principi primi da cui partire per la dimostrazione: in tal modo l’induzione si subordina completamente alla deduzione e la dialettica vale solo come mezzo sussidiario della prova scientifica 2.

  5. Logica estensionale delle “classi” vs. logica intensionale della singolarità. Bisogna dunque inventare un metodo per tentare di rispondere effettivamente alle giuste esigenze fatte valere da Platone, cioè che nella conoscenza le “divisioni” delle idee (in termini aristotelici: le astrazioni) e le loro relazioni non siano né casuali né basate su dogmatiche assunzioni di principio, ma rispettose della reale articolazione dell’essere. Ora, questo significa per Aristotele passare dalla logica del singolare – tipica dell’idea platonica, in cui non vi è distinzione tra universale e particolare – alla logica delle classi, fondata sulla gerarchia tra generi e specie (gli “universali”). Infatti, la logica platonica è di tipo analogico e qualitativo (intensionale) poiché si fonda sulle qualità degli attributi, ognuno dei quali esprime una “tendenza”. Così, se diciamo «il tavolo è verde», per Platone non significa che il tavolo ha in sé l’idea del verde, ma che la esemplifica, cioè esprime una tendenza (infinita) di adeguazione al modello. Per questo le idee rimangono paradigmi e schemi, ma non divengono mai “concetti”.

Tuttavia, una logica intensionale non è formalizzabile, cioè non è riducibile a un meccanismo oggettivo e impersonale che, indipendentemente dalle scelte soggettive, possa determinare rapporti di inclusione, esclusione, derivazione tra simboli che stanno per oggetti singolari. A questo scopo, è necessario introdurre la nozione di classe, cioè una generalizzazione estensionale non su proprietà, ma – appunto – su individui.

Per costruire una logica di questo tipo, l’individuo – che nel nostro mondo vitale costituisce la realtà qualitativa immediata, contingente, approssimativa, sentimentale ecc. – dev’essere a sua volta ridotto a ciò che ha in comune con altri individui della stessa specie, lasciando da parte le proprietà singolari e accidentali. La conoscenza scientifica riguarda solo questa parte comune, al di là della quale subentrano la dialettica e il pensiero analogico che non appartengono più alla ragione teoretica. La logica aristotelica perde così il carattere dinamico, trascendentale e verticale che la dialettica delle idee presentava in Platone, per assumere quel carattere statico, classificatorio e orizzontale che manterrà fino agli inizi dell’età moderna. A fronte di questa “perdita” qualitativa, vi è un evidente guadagno in termini di rigore argomentativo: la scienza si avvicina infatti a un calcolo, in cui si tratta solo di cogliere i rapporti di relazione, sovraordinazione e subordinazione dei concetti 3.


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2. Il carattere della filosofia aristotelica

Da quanto detto nel paragrafo precedente, il “fraintendimento” della filosofia platonica da parte di Aristotele risulta inevitabile: se le idee diventano classi, concetti o semplici predicati di un giudizio,cioè in una parola “forme universali” articolabili in generi e specie ma non in oggetti individuali (per i quali bisognerebbe procedere in senso intensionale), la loro segregazione in un mondo trascendente risulta inutile e persino dannosa,  perché complica ulteriormente il già enigmatico quadro della realtà fenomenica. Si noti tuttavia che, riducendo il pensiero scientifico a una teoria deduttiva della dimostrazione, la scienza aristotelica è costretta a prendere in considerazione solo termini universali, cioè generi e specie, i quali costituiscono il vero “oggetto” della conoscenza.

Da qui prende corpo il carattere della filosofia aristotelica. Benché alcuni studiosi, come Düring, abbiano evidenziato l’apertura problematica del metodo aristotelico, è tuttavia innegabile – come altri, sulla scorta di Hegel, hanno osservato – che Aristotele si serve di uno statico metodo classificatorio per i propri concetti conoscitivi, metodo che tende altresì a presentarsi esteriormente come un sistema chiuso, un’entità logica definita in cui si presuppone che la verità si sia come rappresa, al di fuori di ogni trasformazione in senso storico, concreto e individuale. In altri termini, la verità, intesa più come possesso stabile e definitivo anziché come conquista provvisoria di un processo umano di ricerca, tende a trasformare la sistematicità della riflessione tipica dello spirito socratico-platonico – cioè l’organizzazione logica dei concetti raggiunti – in una struttura autoconsistente, nella quale filosofia e scienza vengono a coincidere 4.

Platone, non riconoscendo l’autonomia dei diversi ambiti del sapere, aveva bisogno di una logica differenziata o equivoca, di tipo analogico, per render ragione della diversità dell’essere (per esempio nella distinzione tra il senso copulativo del verbo “essere” e il suo senso esistenziale e assertorio, come effettiva descrizione di un fatto).

Aristotele, invece, identificando il sapere autentico col ragionamento dimostrativo, utilizza una logica univoca in cui il verbo essere, corrispondentemente alla sua teoria delle classi, indica l’inerenza o non inerenza di un predicato a un soggetto. La sua concezione della conoscenza è perciò declinata in base alla struttura dell’asserzione linguistica (“A è B” = B inerisce ad A), cosicché le leggi logiche non sono altro che un calco del linguaggio ordinario.

Da qui la difficoltà di realizzare il compito che ogni filosofia come scienza si propone, vale a dire esprimere l’idea di una suprema connessione logica di tutte le scienze che, in quanto filosofia prima, raccolga ed esaurisca tutto lo scibile. Infatti, in un linguaggio che si articola secondo generi e specie, la filosofia prima, o scienza dell’essere in quanto essere, non è eseguibile, in quanto il suo oggetto – l’essere – si presenta come un principio trascendentale o onnipervasivo e, dunque, non sottoponibile alla struttura del ragionamento dimostrativo.

Di fronte al principio indimostrabile dell’essere, la filosofia aristotelica si presenta come una scienza divina, in cui si presuppone che la verità sia interamente rivelata o rivelabile all’uomo mediante l’intelligenza e il concetto. Si tratta di un razionalismo che si congiunge a una nozione positiva di teologia: a differenza di Platone, per Aristotele conoscenza umana e conoscenza divina tendono a coincidere 5.

Questo razionalismo teologico che, come vedremo, fa perno sulla nozione di finalità dell’essere (teleologia), favorisce altresì la rottura del nesso stabilito da Socrate e Platone fra vita teoretica e vita pratica, basato sul concetto di unità della virtù. Il modo di vivere filosofico è, per Aristotele, fine a sé stesso e tende a risolversi nella vita di pura contemplazione, in opposizione agli interessi legati al vivere quotidiano. La filosofia è l’unica scienza libera «perché essa sola ha il fine in sé stessa». Una vita di tal sorta è detta da Aristotele “divina” perché «l’uomo non vive di quella vita come uomo, ma in quanto un certo che di divino è presente in lui». L’uomo che persegue le virtù pratiche non può utilizzare il sapere più alto, cioè dimostrativo; pertanto, se da un lato Aristotele ha il merito di proporre una nozione articolata di razionalità, dall’altro resta sempre il fatto che la “vera” razionalità che si esprime nella scienza è solo quella teoretica, in cui le conclusioni derivano necessariamente dalle premesse, mentre le altre forme – in quanto vincolate all’abitudine, alla tradizione e all’esperienza – hanno sempre a che fare con il possibile e il probabile 6.

Infine, da tutto ciò si comprende perché, come storico della filosofia, Aristotele abbia spesso trasformato o emendato le dottrine dei predecessori, sino a renderle talvolta irriconoscibili rispetto a una più attenta indagine filologica. La critica verso tali dottrine veniva infatti da lui esercitata ai fini di una ricostruzione soggettiva da utilizzare come base per l’edificazione del proprio sistema. È quindi sempre lo spirito di sistema la causa principale di eventuali decurtazioni e travisamenti.

L’insistenza di Aristotele sulla nozione di “sophía” anziché di “philía” nel tracciare il senso dell’indagine filosofica, costituisce senza dubbio il carattere decisivo che lo separa dall’éros platonico. Ma, come vedremo – e come alcuni studiosi hanno evidenziato –, nella filosofia aristotelica sembra sopravvivere una vena di platonismo ineliminabile che percorre il suo pensiero dall’inizio alla fine. Infatti, malgrado tutto il suo empirismo, Aristotele rimane legato a un tipo di oggetto della conoscenza – vale a dire la sostanza – che sopravanza ogni determinazione sensibile, materiale e categoriale. Questa permanenza di un fattore extrasensibile è la ragione del continuo riemergere di quel dualismo tra forma e materia della realtà che Aristotele e lo stesso Platone si erano sforzati, sia pure con mezzi diversi, di eliminare.

4.Le diverse interpretazioni del “carattere” della filosofia aristotelica

Hegel: la filosofia aristotelica come sistema speculativo chiuso, sintesi superiore di empirismo e idealismo

«Aristotele ha portato lo sguardo su tutta la cerchia delle rappresentazioni umane, è penetrato in tutte le pieghe dell’universo reale, assoggettandone la ricchezza e la frammentarietà al concetto [...]. Ma l’aspetto generale della sua filosofia non si presenta già come un tutto sistematicamente costruito, di cui l’ordine e il collegamento sottostiano parimenti al concetto; anzi le varie parti sono desunte dall’esperienza e poste le une accanto alle altre, di guisa che ciascuna di esse è conosciuta per sé come concetto determinato, senza essere assunta nel nesso del movimento scientifico. [...] Di fatto Aristotele ha superato per profondità speculativa Platone, giacché conobbe la più profonda tra le speculazioni, l’idealismo, e vi si attenne, nonostante la parte amplissima concessa all’empirismo. [...] Sebbene il sistema di Aristotele non appaia dedotto nelle sue parti dal concetto, sebbene anzi queste parti appaiano giustapposte, tuttavia esse costituiscono un insieme filosofico essenzialmente speculativo. [...] Non si deve così cercare un sistema filosofico, le cui singole parti vengano dedotte, ma soltanto un inizio estrinseco e un procedimento empirico: quindi la sua maniera è spesso quella del ragionamento comune. Ma siccome egli, nonostante questo suo procedimento, ha pure la peculiarissima caratteristica di essere molto profondamente speculativo, la sua maniera più tipica consiste nel cogliere il fenomeno da osservatore che pensa. [...] [Aristotele] ha la pazienza di esaminare tutte le rappresentazioni e tutti i problemi; e dall’esame dei singoli caratteri determinati, scaturisce la salda determinazione di ogni oggetto, ricondotta alla speculazione. In tal modo egli forma il concetto, ed è in sommo grado filosofico, pur sembrando soltanto empirico. L’empiria di Aristotele è totale, perché riconduce sempre di bel nuovo alla speculazione: si può dunque dire ch’egli, in quanto empirico compiuto, è a un tempo pensatore [...] infatti l’empirico, colto nella sua sintesi, è precisamente il concetto speculativo». G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, vol. II, cit., pp. 276, 289-291.

Jaeger: la filosofia aristotelica come sistema in continua evoluzione

«Aristotele non si avvicinò affatto con fredda intelligenza critica al mondo della filosofia platonica, ma anzi restò per lunghi anni dominato dall’enorme suggestione della sua figura. [...] La filosofia di Platone diviene per lui, da compiuta forma, materia per qualcosa di nuovo e più alto. La presa di posizione rispetto a ciò che, con tutta l’anima, egli ha attinto da Platone, si estende attraverso l’intera opera della sua vita, è il filo conduttore della sua stessa evoluzione. Essa lascia intravedere un progressivo sviluppo, attraverso i cui diversi stadi è dato seguire chiaramente il processo onde il nocciolo essenziale del suo pensiero si libera dalla corteccia. Anche le ultime creazioni recano in sé, in certo modo, la traccia e il sigillo dello spirito platonico, ma in grado più esiguo che quelle di più antica età. Il concetto aristotelico dell’evoluzione può essere applicato a lui stesso: la nuova forma, che vuol realizzarsi nel divenire, si afferma vittoriosamente contro l’opposizione di una materia, per quanto grande sia il valore intrinseco a questa. [...] La storia della sua evoluzione presenta, coi suoi documenti esattamente determinabili, addirittura una scala del graduale processo in tale direzione, anche se egli non riuscì, in molti punti, ad andare al di là del compromesso. In tali punti i suoi scolari lo hanno spesso capito, più tardi, meglio di quanto si fosse capito egli stesso, cioè hanno cancellato l’elemento platonico e cercato di conservare quello puramente aristotelico. Ma ciò che è specificamente aristotelico è proprio soltanto la metà di Aristotele. Gli scolari non capirono questo: egli ne rimase sempre consapevole». W. Jaeger, Aristotele. Prime linee di una storia della sua evoluzione spirituale (1923); cit. da Questioni di storiografia filosofica, vol. I, cit., pp. 272-273.

Düring: la filosofia aristotelica come un’aperta “sistematica dei problemi”

«L’ordinamento degli scritti del Corpus Aristotelicum risale ad Andronico [...]. A fondamento della sua attività di editore sta una concezione della filosofia aristotelica che fondamentalmente non è aristotelica, bensì schiettamente ellenistica. Egli si aspettava cioè di ritrovare in Aristotele ciò che era tipico della filosofia del suo tempo: un sistema filosofico unitario. [...] Fondamentalmente, Aristotele era un pensatore problematico e un creatore di metodi; aveva certo una forte tendenza sistematica, ma ciò a cui tendeva era una sistematica dei problemi: cercava cioè sempre di inquadrare il problema particolare in un ambito più vasto. [...] Nell’esposizione dei risultati conseguiti non di rado impiega il metodo deduttivo, [suscitando] l’impressione di un dogmatismo. Ma nella maggior parte dei casi egli conduce una ricerca e considera i pro e i contro in un incessante dialogo con se stesso. Era fondamentalmente convinto del fatto che i diversi campi della scienza richiedono diversi metodi, e che di conseguenza lo scienziato deve sempre ricercare nuovi principi. Questa varietà dei principi è un’essenziale caratteristica della filosofia aristotelica, ed è quindi assolutamente impossibile trovare in Aristotele un sistema concluso, se si intende con questo termine una filosofia che esponga un edificio dottrinale ben connesso e fondato su un concetto di unità. [...] L’edizione di Andronico segna l’inizio dell’aristotelismo [...]. La filosofia di Aristotele doveva essere trasposta in un’esposizione sistematica, perché ci si interessava anzitutto al contenuto dottrinale, e non all’impostazione dei problemi e alla loro discussione come tali. Fu quindi compito della generazione successiva divulgare Aristotele mediante parafrasi e spiegarlo per mezzo di commentari». I. Düring, Aristotele, cit., pp. 52-54.


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La pratica della lettura

4. Il naturalismo aristotelico

Nel seguente brano, tratto dalla Fisica (I, 184 a 10 – 191 b 14; II, 192 b 8-33), vengono chiaramente espressi i due aspetti fondamentali del “naturalismo” aristotelico, vale a dire: a) l’aspetto metodologico, per cui nella ricerca dei principi bisogna partire da ciò che per noi è più evidente e immediato; b) l’aspetto contenutistico, che riguarda invece la generazione e la trasformazione delle cose e degli esseri viventi che si trovano nella natura. Come Platone nel Menone, Aristotele qui riprende e critica l’argomento eristico, secondo il quale nulla può generarsi dall’essere (perché già è), né dal non-essere (perché non è). Lo scopo di Aristotele è infatti quello di affermare una concezione della natura caratterizzata dal divenire e, a tal proposito, si spiegano anche i paragrafi conclusivi, volti a distinguere gli esseri viventi che hanno in sé il principio del movimento, dalle cose artificiali o non viventi, il cui divenire non ha invece cause interne.

«Poiché in ogni campo di ricerca di cui esistono princìpi o cause o elementi, il sapere e la scienza derivano dalla conoscenza di questi ultimi – noi, infatti, pensiamo di conoscere ciascuna cosa solo quando ne abbiamo ben compreso le prime cause e i primi princìpi e, infine, gli elementi –, è evidente che anche nella scienza della natura si deve cercare di determinare anzitutto ciò che riguarda i princìpi

È naturale che si proceda da quello che è più conoscibile e chiaro per noi verso quello che è più chiaro e conoscibile per natura: perché non sono la medesima cosa il conoscibile per noi e il conoscibile in senso assoluto. Perciò è necessario procedere in questo modo: da ciò che è meno chiaro per natura ma più chiaro per noi a ciò che è più chiaro e conoscibile per natura.

A noi risultano dapprima chiare ed evidenti le cose nel loro insieme; e solo in un secondo momento l’analisi ci consente di individuarne gli elementi e i princìpi. Perciò bisogna procedere dall’universale al particolare: infatti alla sensazione si presenta come più immediatamente conoscibile l’intero, e l’universale è, in un certo senso, l’intero, perché esso contiene molte cose come parti. Ciò appunto avviene, per così dire, anche per i nomi rispetto alla loro definizione: essi indicano, infatti, qualcosa nel suo insieme e in maniera indeterminata, come il nome “cerchio”: la definizione di esso, poi, lo determina nelle singole particolarità. Anche i bambini, del resto, in una prima fase chiamano padri tutti gli uomini e mamme tutte le donne, e solo in una seconda fase distinguono ciascuna di tali cose in particolare. [...]

Veniamo, dunque, a parlare, allo stesso modo e in primo luogo, della generazione in generale: ché è conforme a natura parlar prima delle cose comuni, per poter, poi, contemplare quelle che sono proprie del particolare. Noi diciamo, invero, che una cosa si genera dall’altra e il diverso dal diverso, riferendoci sia alle cose semplici sia a quelle composte. Mi spiego con questo esempio: accade che un uomo diventi musico o, meglio, che l’uomo non-musico diventi uomo musico. Ora io dico semplice ciò che diviene, l’uomo, cioè, e il non-musico, e semplice anche il divenuto, cioè il musico; composto, invece, l’insieme di ciò che diviene e di ciò che è divenuto, come quando noi diciamo che l’uomo non-musico diventa uomo musico; e di una di queste due cose si dice non solo: “questo diviene”, ma anche: “questo diviene da questo”, ad esempio il musico dal non-musico. Ma ciò non si dice di ogni cosa in modo indiscriminato: infatti, non dall’uomo è venuto fuori il musico, ma l’uomo è divenuto musico. Fra le cose, poi, che divengono secondo il nostro comune modo di esprimerci sulla generazione delle cose semplici, alcune divengono permanendo, altre non permanendo: l’uomo, infatti, divenuto musico, permane ed è uomo; ma il non-musico e l’a-musico non permangono in sé né come semplice né come composto. [...]

Solo in questo modo si possono superare anche le aporie degli antichi. Infatti, quelli che primamente filosofarono, indagando sulla verità e sulla natura degli enti, furono tratti, per così dire, verso una via sbagliata, spinti dalla loro inesperienza. Essi affermano che nessuno degli enti si genera o perisce, per il fatto che necessariamente ciò che diviene, si genera secondo loro dall’ente o dal non-ente, mentre è impossibile che si generi da ambe le cose. Infatti, secondo loro, l’essere non può divenire (ché esso è di già), e dal non-essere nulla si potrebbe generare, perché è necessario che qualcosa faccia da sostrato. E così, accentuandone le immediate conseguenze, affermano che il molteplice non esiste, ma che esiste sempre lo stesso ente.

Essi seguirono questa opinione per i motivi da noi illustrati; noi, invece, affermiamo che la generazione da ciò-che-è o da ciò-che-non-è, ovvero il fatto che ciò-che-è o ciò-che-non-è agiscano o patiscano, o comunque una qualsivoglia generazione particolare, non differiscono affatto dall’agire o dal patire del medico o dal fatto che alcunché sia o si produca per opera del medico; e quindi, poiché ciò si dice in duplice senso, è chiaro che quello che proviene dall’ente e l’ente stesso agiscono o patiscono. Il medico, pertanto, costruisce pure una casa, ma non in quanto medico, bensì in quanto costruttore, e diventa pure bianco, ma non in quanto medico, bensì in quanto nero; invece, in quanto medico, egli medica o è incapace di medicare. E poiché noi diciamo, in modo molto appropriato, che il medico fa o patisce qualcosa, o che da medico diventa una tal cosa, qualora egli, in quanto medico, patisca o agisca ovvero diventi tali cose, è ovvio che l’espressione “essere generato dal non-ente” debba significare “essere generato in quanto non-ente”. Ma gli antichi filosofi non seppero fare questa distinzione e caddero in errore, e per questa loro ignoranza avanzarono tanto nell’ignoranza stessa da credere che nessun’altra cosa si generi o sia, e da eliminare tutto il divenire. [...]

Degli enti, alcuni sono per natura, altri per altre cause. Sono per natura gli animali e le loro parti e le piante e i corpi semplici, come terra, fuoco, aria e acqua (queste e le altre cose di tal genere noi diciamo che sono per natura), tutte cose che appaiono diverse da quelle che non esistono per natura. Infatti, tutte queste cose mostrano di avere in se stesse il principio del movimento e della quiete, alcune rispetto al luogo, altre rispetto all’accrescimento e alla diminuzione, altre rispetto all’alterazione.

Invece il letto o il mantello o altra cosa di tal genere, in quanto hanno ciascuno un nome appropriato e una determinazione particolare dovuta all’arte, non hanno alcuna innata tendenza al cangiamento, ma l’hanno solo in quanto, per accidente, tali cose sono o di pietra o di legno o una mescolanza di ciò; e l’hanno solo in quanto la natura è un principio e una causa del movimento e della quiete in tutto ciò che esiste di per sé e non per accidente (dico “non per accidente”, perché un tale, ad esempio, pur essendo medico, potrebbe essere causa di salute a se stesso; tuttavia non in quanto egli è sanato, possiede l’arte medica, bensì è capitato accidentalmente che siano lo stesso il medico e il sanato: e perciò queste due cose si possono anche separare tra loro). Similmente avviene per ciascuno degli altri oggetti prodotti artificialmente: nessuno di essi, infatti, ha in se stesso il principio della produzione, ma alcuni lo hanno in altre cose e dall’esterno, come la casa e ogni altro prodotto manuale; altri in se stessi, ma non per propria essenza, bensì in quanto accidentalmente potrebbero diventar causa a se stessi».

Aristotele, Fisica, in Opere, vol. 3, trad. it. di A. Russo, Laterza, Roma-Bari, 1983, pp. 3-27.

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