Unità Aristotele

Lezione

L’ontologia, la teoria della sostanza e la teologia

1. La “forma”dell’essere

Veniamo ora al secondo campo d’indagine della metafisica: l’“essere in quanto essere” o problema ontologico. Secondo Aristotele, si tratta di superare sia l’univocità assoluta di Parmenide, che ammetteva solo la predicazione d’identità, sia l’univocità relativa di Platone, la quale giustificava la predicazione di non-identità ricorrendo alla trascendenza del “mondo delle idee”, in cui la pluralità dei significati ontologici, determinata dalla diversità ideale, è separata dal mondo sensibile.

Ora, l’essere si esprime per Aristotele attraverso una molteplicità di significati nell’immanenza della realtà naturale, la quale è composta di individui o “sinoli”, cioè unioni di materia e forma. Solo questi, propriamente, “esistono” e hanno una “realtà”; essi infatti – come abbiamo visto – costituiscono le sostanze prime, mentre dal punto di vista ontologico generi, specie e generi sommi (categorie) esistono come sostanze seconde solo nell’individuale.

Di conseguenza, se la molteplicità dei significati dell’essere dipendesse dalla molteplicità degli individui esistenti, il concetto di “essere” sarebbe un mero omonimo, cioè il termine si riferirebbe in un modo totalmente diverso (equivoco), esclusivo e incommensurabile a ogni sostanza prima. È questa la posizione radicalmente nominalistica, per cui l’universale è un puro nome che “esiste” solo nel linguaggio. In tale prospettiva, non è possibile alcuna ontologia, ma solo una descrizione “ontica” delle cose e dei fatti. 

D’altra parte, l’essere non può nemmeno riguardare in modo esclusivo le sostanze seconde. Se così fosse, si giungerebbe al paradosso per cui l’aspetto che qualifica l’esistenza, ossia l’individuale, sarebbe al di fuori della considerazione ontologica. Ma la difficoltà maggiore riguarderebbe il fatto che l’essere sarebbe una specie, un genere o una categoria, cosa che contraddirebbe il suo carattere universale o trascendentale. Infatti, ogni termine categoriale (“animale”, “bianco”, “alto tre cubiti” ecc.) si comprende per contrasto rispetto alla categoria complementare che ne costituisce la negazione (non-animale, non-bianco ecc.). Senonché, la categoria complementare dell’essere, cioè il non-essere, non definisce in realtà alcuna categoria, perché non indica alcuna “esistenza”. In secondo luogo, se l’essere fosse una categoria, l’esistenza sarebbe un attributo descrivibile cioè, in termini attuali, un concetto; anche in questo caso si giungerebbe al paradosso che il pensiero di una cosa basterebbe a decretarne l’esistenza.

Quest’insieme di difficoltà si può riassumere nella nozione di univocità legata alla sinonimia: infatti la conformità dell’essere al “genere” o alla “specie” dovrebbe condurre alla sua sinonimicità, così come “uomo” e “bue” sono sinonimi rispetto al genere superiore dell’“animale”. Ma allora l’essere non sarebbe più molteplice bensì univoco, così come – in modi diversi – avevano sostenuto Parmenide e Platone.

In considerazione, dunque, del fatto che i significati dell’essere non possono presentarsi né come omonimi, né come sinonimi, sembra evidente cercare una soluzione intermedia, in grado di conciliare i due aspetti e mantenere al tempo stesso la molteplicità (omonimia) e l’unità (sinonimia). A questo riguardo, Aristotele nota come l’essere non possa soggiacere al divieto di trasgressione categoriale, ma debba anzi, per il suo stesso senso, avere libera circolazione per tutti i generi.

Nel passaggio da un genere all’altro, il significato dell’essere non può pertanto permanere identico, ma solamente analogo. Questo vale anche per le quattro cause: l’implicazione logica è infatti ciò che vi è di “analogo” nelle diverse categorie di causalità. Ma in quali termini l’analogia, nel modo in cui ce la presenta Aristotele, è in grado di svolgere questa funzione unificatrice dei “molteplici sensi” dell’essere?

Già Platone aveva cercato di risolvere il problema mediante un’applicazione ontologica dell’analogia che egli – prendendo spunto dai pitagorici – intendeva come analogia di proporzionalità, volta a stabilire un’uguaglianza di rapporti “verticale” (ideale-sensibile) tra termini diversi. Ma Aristotele non intende né può utilizzare questo tipo di analogia. Egli infatti ci dice che i molteplici significati dell’essere sono tali «sempre in riferimento a un’unità e a una realtà determinata», nello stesso modo in cui, per esempio, diciamo “sano” ciò che si riferisce alla salute, o “medico” ciò che ha a che fare con la medicina 1. La “relazione a uno” della molteplicità dei significati riproduce dunque il modello della predicazione paronimica, e il centro unificatore di cui parla Aristotele è quello della sostanza, in quanto ogni cosa è o come sostanza, o come sua affezione, o come accidente, o, infine, come sua causa generatrice e distruttrice. Non può esserci altro significato dell’essere se non in riferimento alla sostanza 2.

Tuttavia, abbiamo visto (cfr. lezione 30) che la predicazione paronimica concerne il rapporto tra il caso retto, espresso dal sostantivo nella forma nominativa, e gli “accidenti” o i casi obliqui, che sono invece rappresentati dalle altre parti del discorso e dalle diverse flessioni dei termini. Se trasferiamo tutto ciò al rapporto tra la sostanza e i suoi accidenti, notiamo subito che non può esserci alcuna “proporzionalità” tra la predicazione sostanziale, che verte intorno al nome sostantivo, e le altre predicazioni di tipo categoriale, corrispondenti alle “flessioni” accidentali 3. Per quanto differenti e di diversa importanza, tutte le predicazioni categoriali si collocano infatti sul medesimo piano ontico di ciò che è derivato e dipendente (le cose empiriche, i fatti), mentre la predicazione sostanziale (la sostanza come “categoria”) si situa sul piano ontologico della primarietà essenziale. La vera separazione, che implica un salto incolmabile da parte di qualsiasi discorso analogico, è dunque quella che ha luogo tra la sostanza e tutte le altre categorie. Non a caso lo schema paronimico, utilizzato per esprimere la pura e semplice “relazione a uno”, riproduce la categoria più bassa e meno sostanziale, cioè quella che riguarda le “relazioni esterne” o prós ti. In conclusione, la paronimia non ha nulla a che vedere con l’analogia di proporzionalità.

I medievali intesero lo schema paronimico come l’affermazione, nella filosofia aristotelica, dell’analogia attributiva, ossia del rapporto teologico, al tempo stesso di somiglianza e di dipendenza causale, che lega le creature a Dio.

Si tratta di un rapporto a tre termini, cioè di due in riferimento a uno, per esempio: «La sapienza (1) di Socrate (2) è come la sapienza di Dio (3)» – schema (2, 3) → (1) –, il che fa pensare che la paronimia possa essere assimilata a un discorso “analogico” di questo genere. Ma vi sono due elementi che impediscono quest’assimilazione. Il primo è che Aristotele intende l’analogia sempre nella forma dell’uguaglianza proporzionale o della somiglianza non-causale (“analogia di proporzione”) e ne fa un uso esclusivamente inferenziale all’interno della medesima categoria, come forma imperfetta di ragionamento induttivo, cioè senza capacità di concludere all’universale. Il secondo è che l’analogia attributiva, in base alla quale – per restare all’esempio citato – l’attribuzione della sapienza a Socrate e a Dio non può avere lo stesso senso, ma solo uno “analogo”, presuppone un rapporto diverso tra soggetti diversi, mentre la predicazione paronimica implica un rapporto diverso rispetto al medesimo soggetto: la sostanza.

La riduzione della paronimia di Aristotele all’analogia attributiva implica dunque o l’assimilazione della sua concezione semantica dell’essere alla relazione ontologica e platonizzante della “partecipazione” tra una cosa superiore e le cose derivate, ovvero – nel migliore dei casi – una sua completa subordinazione alla teologia, mentre questa è, come vedremo, solo uno dei significati della metafisica aristotelica. Da tutto ciò ricaviamo un’importante conseguenza che – in tempi diversi – è stata evidenziata da due grandi studiosi di Aristotele, Franz Brentano (1838-1917) e Pierre Aubenque (nato nel 1929): lo schema paronimico, eletto da Aristotele a rappresentare la relazione tra unità e molteplicità dell’essere, non è in grado, per la sua stessa natura semantico-linguistica, di “chiudere” sulla sostanza, e in particolare sulle sostanze prime, la cui “individuazione” ontologica non può quindi essere consegnata né alla logica, né alla metafisica 4, 5. Come vedremo nella lezione 35, Aristotele cercherà di assegnare alla psicologia questa funzione di individuazione. Ma prima di passare alla questione metafisica della sostanza, è necessario soffermarsi sui significati fondamentali dell’essere.

3.F. Brentano: la divisione tra la sostanza e i suoi accidenti

«L’essere [...], in quanto comprende tutte le specie e i generi delle cose, si divide anzitutto in sostanza e accidente. Il concetto di sostanza si dimostra sinonimo per i generi inferiori e costituisce la prima categoria. L’accidente, invece, appare a sua volta un concetto analogo che si suddivide in accidenti assoluti e in relazioni, secondo la differenza tra i predicati che appartengono al soggetto in modo assoluto o in riferimento ad altro. La relazione, essendo legata alla sostanza nel modo più debole ed essendo quindi essere meno di tutti gli altri, forma l’ultima categoria. L’accidente assoluto, invece, permette di riconoscere ancora grosse differenze nei rapporti con la sostanza prima, e deve di conseguenza essere diviso in tre classi innanzitutto. La prima comprende quei predicati accidentali dell’essere in senso primo che gli vengono attribuiti come esistenti propriamente in esso, e nei quali l’essere è quindi un autentico in-essere. Sono gli accidenti inerenti che, nello stesso numero dei principi interni alla sostanza, secondo che le appartengano dalla parte della materia o della forma, costituiscono le due categorie della quantità e della qualità. La seconda classe contiene i predicati che, presi in parte dall’interno e in parte dall’esterno, più rispetto a un soggetto che in un soggetto, sono stati indicati in generale come operazioni, movimenti. Anche essi contengono due categorie: il fare, dove ciò da cui viene preso il predicato si trova nel soggetto secondo il principio dell’operazione; e il patire, dove ciò da cui viene preso il predicato si trova nel soggetto secondo il termine dell’operazione. Infine, la terza classe degli accidenti assoluti, per i quali il predicato è tratto da qualcosa che si trova al di fuori del soggetto, si divide nel dove e nel quando. Con questo sembra esaurito il numero dei possibili modi della predicazione, se essi devono d’altronde accogliere solo concetti reali». F. Brentano, Sui molteplici significati dell’essere secondo Aristotele (1862), Vita e Pensiero, Milano, 1995, pp. 157-159.


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2. I quattro significati dell’essere

Aristotele ci elenca quattro gruppi fondamentali di significati dell’essere, ossia:

  1. l’essere in senso accidentale, non sostanziale, a cui può capitare o accadere d’essere, per esempio: «quest’uomo è musico». L’essere accidentale è un essere non necessario, ma soltanto possibile, contingente (che può essere ma può anche non essere). Esso non rientra dunque nella definizione del soggetto. Quest’essere accidentale o contingente non dev’essere tuttavia confuso col significato generale dell’accidentalità che è invece una notazione categoriale appartenente al gruppo successivo, ovvero:
  2. l’essere per sé, essenziale: in primo luogo è riferito alla sostanza, in secondo luogo è riferito a tutte le altre categorie. L’essere per sé non è in altro né ha bisogno di altro; dunque non c’è un genere in cui possa rientrare;
  3. l’essere come vero e il non-essere come falso. Si tratta dell’essere mentale che corrisponde all’essere reale, secondo il già menzionato criterio corrispondentistico di verità: /A/(= nel pensiero) è vero se e solo se A esiste effettivamente come tale;
  4. l’essere come potenza (dýnamis) e come atto (enérgeia): il seme è l’albero in potenza, l’albero è il seme in atto; la statua è l’atto che si trova in potenza nel blocco di marmo. Si tratta del significato dinamico dell’essere che attraversa tutti gli altri significati e le diverse categorie. Ogni cosa può essere, nel suo livello categoriale, in potenza o in atto. Esso rappresenta inoltre la traduzione in senso ontologico del divenire biologico-naturale.

In conclusione, tutti i significati dell’essere suppongono l’essere delle categorie e questi, a loro volta, l’essere della sostanza. L’intero sistema si regge sulla base di una relazione paronimica con la sostanza, ontologicamente equivoca e logicamente univoca 6.

6.I significati fondamentali dell’essere

Significati A chi o a cosa spettano Carattere concreto/astratto Area disciplinare
1. Essere come accidente Oggetti empirici, contingenti Concreto Logica e ontologia
2. Essere per sé Sostanze, generi sommi Concreto e astratto Ontologia
3. Essere come vero / non-essere come falso Pensieri e giudizi Astratto-mentale Logica, teoria della conoscenza
4. Essere come potenza e atto Enti fisici e biologici Concreto-dinamico Fisica, biologia, teologia
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3. La sostanza

Dopo aver ridotto il problema ontologico generale al suo nucleo centrale, cioè alla questione della sostanza (ousía), Aristotele si accinge ad affrontarne direttamente la definizione, la quale si divide in due parti: 1) che cos’è la sostanza in generale? 2) Quali sostanze esistono?

  1. Per rispondere alla domanda generale sulla sostanza, bisogna partire dalle cose sensibili. Esse infatti sono ammesse da tutti e, per noi uomini, sono ontologicamente prime. Ora, in ogni cosa della nostra esperienza noi possiamo distinguere una forma (éidos, morphé) e una materia (hýle). La forma non è l’aspetto esterno, la semplice “configurazione”, ma l’intima natura delle cose, quella natura che fa essere le cose ciò che sono: per esempio, l’anima razionale è la forma dell’uomo, la sua essenza. Ma senza una materia, nessuna essenza o forma potrebbe esistere nella nostra esperienza. D’altra parte, la materia pura senza la forma sarebbe totalmente indeterminata, una mera potenzialità 7. Posto dunque che la materia contribuisce all’individuazione delle forme e che ogni cosa della nostra esperienza sensibile è un sinolo, cioè unione di materia e forma, vi è senza dubbio una diversa rilevanza tra forma, materia e sinolo, a seconda che si adotti una prospettiva logico-ontologica oppure empirica e descrittiva. Una cosa è tuttavia chiara: da qualsiasi prospettiva la si colga, la materia, in virtù della sua indeterminazione, può dirsi “sostanza” solo in senso del tutto improprio e derivato.
  2. La diversa rilevanza tra forma e sinolo dipende invece dalla differente prospettiva tematica, in un rapporto di conversione tra l’aspetto logico-ontologico e quello empirico. Infatti, assumendo i criteri di riconoscimento della sostanza già esposti nell’órganon – vale a dire: a) non inerire ad altro; b) sussistere per sé; c) essere un determinato “questo qui” e non un universale astratto; d) avere un’unità intrinseca; e) essere in atto –, dal punto di vista empirico il sinolo, come concreto individuo, indica la sostanza per eccellenza, mentre dal punto di vista ontologico-metafisico sostanza per eccellenza è la forma, in quanto “causa” o fondamento dell’essere 8. In conclusione, potremmo dire che il sinolo è la sostanza nel più alto grado ontico-esistenziale rispetto al significato “mondano” dell’esistenza, mentre la forma è la sostanza nel più alto grado ontologico, cioè come possibilità di conoscenza e di senso per l’esistenza. Ora, ogni senso dell’esistenza, in quanto calato in qualcosa che effettivamente esiste, è sempre singolare e determinato, e tale è la forma nel suo essere più autentico. Tuttavia, nel momento in cui conosciamo, trattiamo la forma come una specie o un genere, cioè come un universale astratto. Ecco perché, da un certo punto di vista, la forma è una realtà non-universale e, da un altro, essa appare invece come universale. Tutto questo fa sempre parte dei diversi significati in cui può “dirsi” l’essere.

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4. Dio e la teologia

Una volta chiarita la struttura delle sostanze sensibili come individui empirici, Aristotele affronta il problema dell’esistenza, accanto alle sostanze sensibili, di sostanze immateriali o sovrasensibili. Infatti la forma, come espressione della sostanza nel più alto senso metafisico, non può mancare di esistenza. Questo non vale ovviamente per le forme empiriche e individuali (non dimentichiamo infatti che l’esistenza non è un predicato della realtà), ma solo per la forma come principio causale e fondamento dell’universo, cioè dal punto di vista cosmologico. Le conclusioni di Aristotele relative all’esistenza di una forma pura rappresentano una diretta conseguenza dei caratteri che egli ha attribuito all’essere: se questo deve presentarsi come una totalità organica sorretta da relazioni causali, allora, per non cadere nel regresso all’infinito, bisogna ammettere una causa prima. Questa causa non può essere né la materia, la quale è pura potenzialità, né il sinolo che è particolare e, contenendo la materia, ha in sé qualcosa che è ma può anche non essere. Essa deve dunque essere una forma pura, che corrisponde al puro atto scevro di ogni potenzialità.

Solo l’atto puro è pienezza d’essere perché non ha nulla al di fuori di sé, ma costituisce anzi ciò a cui ogni essere particolare tende. Come atto realizzato, cioè come entelechia, il principio dell’universo è Dio, immobile ed eterno come il mondo stesso. Aristotele chiama il principio divino “motore immobile” che muove il mondo come l’oggetto d’amore attrae l’amante, mentre tutte le altre cose muovono muovendosi esse stesse. L’ultimo significato della metafisica o filosofia prima è dunque la scienza del divino o teologia, e poiché il movimento che Dio imprime al mondo è dovuto non a una sua causalità efficiente, ma alla causalità finale del principio come atto puro, la teologia aristotelica si configura come teleologia o scienza dei fini ultimi dell’universo.

Riguardo alla teologia/teleologia aristotelica si deve osservare quanto segue.

  1. Dio non è per Aristotele separato dal mondo; non c’è una spaccatura o un distacco tra lui e il mondo, ma vi è anzi una relazione gerarchica di continuità. Il Dio aristotelico, dunque, non è propriamente creatore ex nihilo, ma solo “generatore” del tempo e del movimento, che sono eterni e continui come lo stesso principio.
  2. Il rapporto tra Dio e il mondo riflette la duplicità che si presenta nella stessa nozione di essere e che percorre tutta la filosofia aristotelica. Come l’essere è al tempo stesso univoco ed equivoco secondo i punti di vista – logico oppure metafisico-ontologico – da cui lo si coglie, così il divino è contemporaneamente immanente come significato o fine delle cose e trascendente come principio unico del tutto.
  3. Oltre a rappresentare il primo motore immobile, Dio è pensiero puro in atto, cioè “pensiero di pensiero” rivolto solo a sé stesso. Questo significa che, così come non ama il mondo ma è amato, allo stesso modo egli non rivolge il suo pensiero alle cose mondane se non indirettamente, vale a dire attraverso quella “continuità meccanica” che lo lega al mondo 9. Un simile rapporto di corrispondenza/trascendenza tra Dio e il mondo fa della teologia aristotelica una sorta di panteismo moderato in cui, accanto all’impersonalità del divino che si diffonde nella natura, riaffiora costantemente la sua personificazione quasi teistica come intelligenza e atto, ovvero, accanto al monismo, riemerge continuamente il dualismo e viceversa. Ciò è dovuto al fatto che, diversamente da Platone, nella metafisica aristotelica manca un principio autenticamente sintetico come quello analogico-proporzionale, in grado di render ragione – pur nella differenza ontologica tra il divino e le cose mondane – della fondamentale unità dell’essere.

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La pratica della lettura

6. Potenza e atto come principi dinamici della realtà

Dopo aver discusso del problema generale dell’essere e della sostanza articolandolo in quattro significati fondamentali, Aristotele dedica l’intero libro IX della Metafisica alla trattazione del quarto significato, vale a dire l’essere come potenza e come atto. Nel brano che segue (Metafisica, IX, 1, 1046 a 4 – a 16; 3, 1046 b 28 – 1047 b 3) egli introduce la nozione di “essere in potenza” e la difende contro la sua negazione da parte dei megarici che, ispirandosi all’assolutismo parmenideo, affermavano l’esistenza del solo essere in atto. È invece necessario – sostiene Aristotele – distinguere tra potenza e atto allo scopo di riconoscere entrambi gli aspetti come fattori costitutivi della sostanza. Infatti, se si ammettesse solo l’essere in potenza, ci troveremmo in un mondo eracliteo in continuo divenire, peraltro contraddetto dal fatto che ciò che è in potenza deve in qualche modo “essere”, cioè essere in atto; se invece si ammettesse, come fanno appunto i megarici, il solo essere attuale, ci troveremmo di fronte ad ancor più gravi assurdità, poiché verrebbe soppresso il divenire, cioè il movimento, la trasformazione e le forze che caratterizzano la natura.

«La potenza e il potere sono parole suscettibili di molti significati. Di questi molteplici significati possono essere tralasciati quelli che si esprimono per mera omonimia: alcune cose, infatti, son dette potenze solo in base ad una certa similitudine, così come in geometria diciamo che alcune cose sono in potenza o non sono in potenza certe altre, a seconda che siano o non siano in un certo modo. Invece le potenze conformi ad una stessa specie sono, tutte quante, in un certo senso principi, e sono dette potenze in relazione a quella che è potenza in senso primario e che è principio di mutamento in altra cosa o nella medesima cosa in quanto altra. Infatti, (1) c’è una potenza di patire, la quale è – nel paziente stesso – il principio di mutamento passivo ad opera di altro o di sé in quanto altro; e (2) c’è, invece, una potenza che è capacità di non subire mutamenti in peggio né distruzione ad opera di altro o di sé in quanto altro ad opera di un principio di mutamento. In tutte queste definizioni è contenuta la nozione di potenza nel senso originario. [...]

Ci sono alcuni pensatori, come ad esempio i Megarici, i quali sostengono che c’è la potenza solamente quando c’è l’atto, e che quando non c’è l’atto non c’è neppure la potenza. Per esempio colui che non sta costruendo – secondo costoro – non ha la potenza di costruire, ma solo colui che costruisce e nel momento in cui costruisce; e cosi dicasi per tutti gli altri casi. Le assurdità che derivano da queste asserzioni sono facilmente comprensibili. (a) Infatti, è chiaro che uno non potrebbe essere costruttore se non nell’atto di costruire, mentre, in realtà, l’essere costruttore consiste nell’aver la capacità di costruire. E così dicasi per le altre arti. Ora, se è impossibile possedere queste arti senza averle imparate e apprese in un dato momento, e se non è possibile non possederle più senza averle perdute (o per averle dimenticate, o per effetto di una malattia, o per il tempo trascorso; non comunque per essersi distrutto l’oggetto dell’arte, perché questo esiste perennemente), allora, stando a quanto dicono i Megarici, quando uno avrà cessato di costruire, non possederà più l’arte, e tuttavia, poi, potrà improvvisamente riprendere a costruire; ma come può riacquistare l’arte?

(b) Lo stesso vale anche per le cose inanimate: infatti, né il freddo, né il caldo, né il dolce, né, in genere, alcun sensibile potrà esistere se non sarà attualmente percepito. Cosicché ai Megarici accadrà di sostenere la stessa dottrina di Protagora. (c) E, anzi, uno non potrà più neppure avere la facoltà di sentire, se non starà sentendo e non starà esercitando in atto questa facoltà. Allora, se cieco è chi non ha la vista – mentre per sua natura dovrebbe averla e al momento in cui per natura dovrebbe averla e nel modo in cui dovrebbe averla –, ne consegue che i medesimi animali saranno ciechi più volte al giorno, e così anche i sordi. (d) Inoltre, se impotente è ciò che è privo di potenza, ciò che non si è prodotto sarà impotente a prodursi; e mentirà colui che afferma che è o sarà ciò che è impotente a prodursi: questo, infatti, dicemmo essere il significato di impotente. Pertanto queste dottrine megariche sopprimono il movimento e il divenire: infatti, chi è in piedi dovrà stare sempre in piedi e chi è seduto dovrà stare sempre seduto; e, se sta seduto, non potrà più alzarsi in piedi: infatti, chi non ha la potenza di alzarsi non potrà alzarsi.

Se, dunque, queste affermazioni sono assurde, è evidente che la potenza e l’atto sono diversi l’una dall’altro; quei ragionamenti, invece, riducono la potenza e l’atto alla medesima cosa, e perciò essi cercano di eliminare una differenza che è tutt’altro che di scarsa entità. Pertanto può darsi che una sostanza sia in potenza ad essere e che, tuttavia, non esista, e, anche, che una sostanza sia in potenza a non essere e che, tuttavia, esista. Lo stesso vale anche per le altre categorie: può darsi che colui che ha la capacità di camminare non cammini, e che colui che non sta camminando abbia la capacità di camminare. Una cosa è in potenza se il tradursi in atto di ciò di cui essa è detta aver potenza non implica alcuna impossibilità. Faccio un esempio: se uno è in potenza a sedersi e può sedersi, quando dovrà realmente sedersi, non avrà alcuna impossibilità a farlo. E similmente dicasi quando si tratti di potenza di essere mosso o di muovere, di star fermo o di fermare, di essere o di divenire, di non essere o non divenire.

Il termine “atto”, che si collega strettamente a quello di “entelechia”, anche se si estende agli altri casi, deriva soprattutto dai movimenti: sembra, infatti, che l’atto sia principalmente il movimento. Per questa ragione alle cose che non esistono non si attribuisce il movimento, mentre si attribuiscono altri predicati: per esempio si può dire che le cose che non esistono sono pensabili e desiderabili, non, invece, che sono in movimento. E questo perché, mentre non sono in atto, dovrebbero essere in atto. Infatti, fra le cose che sono, alcune sono in potenza: tuttavia non esistono di fatto, perché appunto non sono in atto».

Aristotele, Metafisica, trad. it. di G. Reale, cit., vol. II, pp. 41-46.

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