Unità Aristotele

Lezione La logica come scienza: dalle idee alle classi. Le “categorie” tra logica e realtà

Le categorie

  1. Il requisito di univocità del discorso. Partendo dal basso, cioè dai termini (in senso linguistico) ovvero dai concetti (in senso mentalistico), la logica deve anzitutto mettere in guardia contro i fraintendimenti del linguaggio, che possono sorgere quando uno stesso termine ha più di un significato o più termini hanno un medesimo significato. È questo il requisito dell’univocità, indispensabile per la chiarezza del discorso, cioè per ragionare effettivamente “intorno alle cose”, anziché perdersi in sterili dispute verbali.

    A questo proposito, Aristotele delinea una concezione del rapporto semantico – cioè della relazione che deve instaurarsi tra il segno e ciò che da esso viene designato – del tipo nome-oggetto, la quale si articola in tre forme: a) correlazione uno-uno: a ogni diverso nome corrisponde uno e un solo oggetto; è il caso del rapporto tra il nome proprio e l’individuo; b) correlazione uno-molti: a un nome corrispondono più oggetti. Qui possiamo avere il caso estremo dell’omonimia assoluta (rispetto agli individui e rispetto alla specie; per esempio, «toro» come animale e come costellazione) o quello più moderato dell’omonimia relativa (rispetto agli individui, ma non rispetto alla specie o genere; per esempio, «animale» rispetto al bue e all’uomo; si tratta del rapporto tra nome comune e individui). Osserviamo ora più da vicino il caso dell’omonimia relativa. Se consideriamo le specie più basse, per esempio uomo e bue, allora il nome di «animale» risulta per esse equivoco (omonimo) perché non hanno lo stesso discorso definitorio (significato); ma se consideriamo il genere, cioè l’essere un animale, allora il discorso definitorio è lo stesso.

    Quindi entrambi hanno lo stesso nome e lo stesso significato rispetto all’animalità, sono cioè sinonimi. Otteniamo così la correlazione c) di sinonimia, ovvero molti-uno: a più nomi (uomo e bue) corrisponde un solo oggetto (animale).

    Infine, il rapporto tra nome e oggetto può essere non solo diretto, ma anche indiretto; vi sono infatti casi in cui da una parola assunta come “radice” in senso nominativo derivano, mediante flessione, altre parole che hanno significato in quanto traggono origine da quella radice, come «grammatico» che trae origine dalla grammatica, o «medico» dalla medicina e dalla salute. Aristotele chiama paronimia questo rapporto indiretto di designazione del tipo molti-molti: essa corrisponde all’accidente grammaticale della flessione del nome. Si tratta di una sintesi verticale tra omonimia (diversità) e sinonimia (identità) che – come vedremo nella lezione 33 – riveste un ruolo di primo piano nell’ontologia perché permette di intendere in senso uni-equivoco il rapporto tra la sostanza e i suoi attributi 5.

  2. La connessione predicativa. I nomi possono essere enunciati isolatamente o detti in connessione con altri nomi e parti del discorso. Se presi isolatamente, non dicono nulla, cioè non hanno senso semantico o rappresentativo perché non possono essere detti veri o falsi rispetto a un fatto. D’altra parte, non tutte le connessioni hanno un senso semantico, per esempio: «uomo che corre ma non vince» non è né vero né falso perché non viene indicato a chi o a quale situazione si riferisce. L’unica connessione sintatticamente ammissibile e dotata di un senso rappresentativo è, per Aristotele, quella che ha la struttura soggetto-predicato (connessione predicativa). Il motivo dell’elezione della connessione predicativa a modello semantico primario è evidente: come vedremo, essa riproduce la struttura ontologica del rapporto tra sostanza e attributo.

    La connessione predicativa esprime dunque la relazione tra predicato (= ciò che si dice di qualcosa) e soggetto (= ciò di cui si dice che è o ha qualcosa). Notiamo però subito che la forma predicativa che ci è più consueta, cioè quella che viene resa attraverso la copula, come «Socrate è un uomo», non fa parte della logica aristotelica. Aristotele usa le espressioni “essere di” o “essere in”, cioè “inerire a” o “appartenere”, ma mai “essere un” ecc. Questo impiego rende più evidente l’esistenza di un criterio formale e oggettivo per distinguere la diversa funzione del soggetto e del predicato, la quale invece non traspare dall’uso della semplice copula. Per esempio, per esprimere l’attribuzione affermativa «Socrate è un uomo», la connessione predicativa evidenzia che «l’umanità è di Socrate (cioè gli viene attribuita)»; per esprimere l’attribuzione negativa «Socrate non è quadrupede» si pone invece in risalto che «l’essere quadrupede non è di Socrate». Ora, dire che l’umanità viene attribuita a Socrate non significa che l’umanità sia in Socrate; infatti non tutti gli uomini sono Socrate. Possiamo invece costruire legittimamente la conversa della relazione di attribuzione, cioè sostituire il “di” con l’“in”, solo scambiando i termini, vale a dire: «Socrate è nell’umanità».

    L’importanza di quest’analisi consiste nel mostrare l’asimmetria di funzione tra soggetto e predicato: se avessero la stessa funzione, la relazione di attribuzione dovrebbe sempre essere sostituibile con la conversa senza scambiare i termini, oppure i termini sarebbero interscambiabili lasciando inalterata la relazione di attribuzione. Questa distinzione, che batte in breccia definitivamente la tesi eleatico-megarica secondo cui ogni predicazione è un’asserzione d’identità, corrisponde a ciò che oggi si dice appartenenza di un individuo a una classe o inclusione di una classe in un’altra, relazioni che, a differenza dell’identità, non sono simmetriche 6.

  3. Il limite superiore e inferiore della connessione predicativa. Da quanto detto, risulta che la struttura asimmetrica della relazione di predicazione definisce quale dei due membri debba valere come soggetto e quale come predicato. Naturalmente, a decidere da che parte si trovi l’asimmetria è la struttura della realtà, cioè il significato intrinseco ai due termini. Ora, ciò che è predicato in una connessione predicativa può diventare soggetto in un’altra, per esempio: «il bue è un mammifero (predicato)» e «i mammiferi (soggetto) sono animali». Tale relatività dipende dalla gerarchia tra generi e specie o sostanze seconde, ma non è illimitata; essa trova anzi un limite inferiore nei soggetti ultimi, cioè nei termini che non possono mai fungere da predicati e che designano gli individui, ovvero – come li chiama Aristotele – le sostanze prime. Queste corrispondono al senso denotativo del significato, cioè all’uso del termine come nome proprio di un oggetto o come nome comune di un insieme di oggetti. Le sostanze seconde, invece, rendono il senso connotativo, cioè l’uso del termine come attributo descrittivo di una qualità o insieme di qualità.

    I termini denotanti individui o gruppi di individui hanno senso estensionale, e perciò possono fungere solo da soggetti; viceversa, quelli connotanti qualità o proprietà comuni a più individui hanno senso intensionale, e perciò solo essi possono fungere da predicati. Risalendo la scala nel senso inverso della connotazione o “intensione”, s’incontra pertanto un limite superiore nei predicati ultimi, che Aristotele chiama categorie o “generi sommi”. Esse sono i termini primitivi di un sistema di definizioni; come tali sono indefinibili e, dal punto di vista logico, in numero di dieci: sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, situazione, abito o avere, azione, passione. In altri luoghi Aristotele parla di otto predicati ultimi, sussumendo la “situazione” e l’“abito o avere” sotto le altre categorie 7, 8.

  4. La sostanza e i rapporti tra le categorie. Lasciando da parte la questione – su cui si è svolto un interminabile dibattito – se e in qual misura le categorie aristoteliche costituiscano un “sistema” e quale sia il criterio in base a cui esse vengono ricavate (l’ipotesi più plausibile, ma non sempre condivisa, è che la loro delineazione si avvalga di un filo conduttore logico-grammaticale: sostantivo, aggettivo, avverbio, verbo ecc.), due aspetti assumono particolare rilievo: in primo luogo, il fatto che l’essere non si predichi mai in forma categoriale, ma sia anzi un “trascendentale”, cioè un termine che attraversa tutte le categorie; in secondo luogo, che la sostanza occupi una posizione privilegiata 9.

Le ragioni di questa primarietà sostanziale sono riassumibili nel seguente modo.

  1. A differenza delle altre categorie, la sostanza è insieme attributo (essentia) e sostegno delle attribuzioni (soggetto, sostrato). Come “essenza” essa è la causa formale di un fatto, cioè la condizione della sua intelligibilità; come “sostrato” è invece la causa materiale, cioè la condizione della sua esistenza. La correlazione tra i due aspetti rende ragione della struttura totale delle sostanze prime intese come “sinoli”, ovvero unioni indissolubili di forma e materia. Si ricava da qui la dottrina statica della sostanza che ha la funzione di spiegarne la morfologia.
  2. Tutte le altre categorie possono predicarsi della sostanza, mentre la sostanza non può essere predicata di altre categorie, ma solo di se stessa 10.
  3. Se le altre categorie possono avere relazioni tra loro solo attraverso il comune riferimento a un’unica sostanza concreta o sinolo (relazioni interne, a garanzia della loro esistenza), le diverse sostanze possono invece avere relazioni reciproche solo attraverso la comune partecipazione a un’unica categoria, nel senso astratto del genere sommo (relazioni esterne, a garanzia della loro conoscenza, ma non dell’esistenza).
  4. Solo la sostanza può essere individuale, mentre le altre categorie non individuano mai il loro oggetto; quindi solo la sostanza ha un significato reale. Ora, poiché le categorie diverse dalla sostanza servono per “conoscere”, ne deriva che gli individui, cioè le sostanze prime, sono inconoscibili. In altri termini, la realtà concreta non è oggetto di scienza, ma si possono conoscere solo i generi e le specie.
  5. Le sostanze seconde (generi e specie) non possono includere, quanto all’esistenza, le sostanze prime. Un concetto di una cosa, per quanto ricco, non può mai implicare il fatto che tale cosa esista. Quindi l’esistenza non può mai essere un predicato dell’essenza, ma dev’essere una semplice posizione di realtà, data con la sostanza prima. Questo carattere non-concettuale dell’esistenza – come vedremo trattando della disputa sugli universali nel Medioevo – permette la confutazione di ogni argomento ontologico riguardo alla dimostrazione dell’esistenza di qualcosa, come Dio, che non può ridursi a un fatto.
  6. Il mutuo rapporto tra le categorie, non potendo essere né di inclusione né di identità, dovrà essere, per esclusione, di esclusione. Di qui nasce il divieto del passaggio (metábasis) da un genere all’altro, caratteristico della scienza aristotelica.
  7. Tutti i termini che stanno tra i due limiti indefinibili, cioè tra le categorie e gli individui, sono conoscibili attraverso la definizione. Quest’ultima è “il discorso che esprime l’essenza” e si compone di genere prossimo + differenza specifica. Per esempio, la definizione di “uomo” è: “animale razionale”. Infatti si può dire, per conversione, che “animale razionale” è “uomo”. Si noti che, in ogni definizione, soggetto e predicato si possono convertire: «uomo è animale» non è quindi una definizione perché non si può dire che «animale è uomo».

Ora, i singoli termini o concetti – siano essi denotativi o connotativi, categoriali o trascendentali ecc. – non sono mai veri o falsi. Il vero e il falso implicano infatti sempre un’unione o una separazione di concetti, cioè la considerazione della connessione predicativa come un tutto, e questo accade solo nel giudizio o nella proposizione, di cui tratteremo nella prossima lezione.


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