Capitolo Le biotecnologie

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Come si fa a inserire nuovi geni nelle cellule?

I biologi molecolari hanno trovato in natura gli strumenti con cui riempire la loro «cassetta degli attrezzi», ma la straordinaria varietà della vita offre alle biotecnologie molto più di questo. Spesso la funzione che manca a una specie che per noi è di particolare interesse, si può trovare in altre specie. Si tratta soltanto di scoprire il modo di inserire nel genoma della specie in questione tale gene estraneo; anche in questo caso in natura troviamo gli organismi adatti: i virus.

La storia della clonazione

Nel corso della storia della biologia, il termine clonazione (che indica la produzione in molte copie identiche) è stato applicato a interi organismi, a singole cellule e, infine, a specifici geni. L’idea della clonazione di un intero organismo non è recente.

Nel 1938, l’embriologo tedesco Hans Spemann concepì un esperimento che definì «fantastico»: asportare il nucleo da una cellula uovo e sostituirlo con quello di una cellula somatica (cioè una normale cellula diploide del corpo), per ottenere una sorta di cellula uovo fecondata da far sviluppare, giungendo a un adulto geneticamente identico a quello da cui era stato preso il nucleo

Per Spemann l’esperimento era fantastico anche perché irrealistico, ma già nel 1952 esso fu effetivamente realizzato da Robert Briggs e Thomas King. Usando una sottilissima pipetta di vetro, essi riuscirono ad asportare il nucleo da un uovo di rana (Rana pipens) senza danneggiare la cellula. I ricercatori utilizzarono quella specie non perché fosse di qualche interesse, ma proprio perché le uova di R. pipens sono molto grandi, fino a 5 mm di diametro. Con la stessa tecnica riuscirono a impiantare nell’uovo un nucleo prelevato da una cellula embrionale di un’altra rana. Briggs e King non ottennero alcun animale, ma dimostrarono che la cellula provvista del nuovo nucleo andava incontro ad alcune divisioni cellulari, formando una masserella indifferenziata.

Nel 1970, il biologo britannico John Gurdon ripeté questo esperimento usando una rana africana (Xaenopus laevis). Egli distrusse il nucleo dell’uovo con i raggi UV e lo sostituì con il nucleo di una cellula intestinale di girino. Dopo i primi insuccessi, alla fine arrivò a ottenere rane adulte perfettamente formate.

Si dovette tuttavia attendere il 1986 perché l’embriologo danese Steen Willadsen arrivasse a clonare una pecora usando il nucleo di una cellula prelevata da un embrione in una fase precoce dello sviluppo. Questo risultato fu accolto con grande interesse dai ricercatori e diede origine a una serie di repliche, applicate ad altri organismi, quali bovini e suini.

Nel 1997 il ricercatore Ian Wilmut ottenne l’attenzione di tutta la comunità scientifica pubblicando un articolo sulla rivista Nature in cui annunciava di avere clonato una pecora a partire da una cellula adulta e non embrionale: si trattava di Dolly (▶figura 7). Curiosamente l’opinione pubblica si convinse che il successo fosse la clonazione in sé, mentre per i ricercatori l’aspetto importante era un altro, cioè l’essere partiti dal nucleo di una cellula adulta e non embrionale.

L’esperimento era molto simile a quelli di Gurdon. L’unico accorgimento particolare di Wilmut fu lasciare per alcuni giorni in carenza di nutrimento le cellule candidate a fornire il nucleo per il trapianto, per bloccarne il ciclo cellulare. Wilmut inoltre usò come «madre in affitto» una pecora di razza diversa da quella che aveva fornito il nucleo cellulare, in modo da avere una prova della reale origine di Dolly. È da notare, tuttavia, che per Wilmut come per Gurdon la percentuale dei successi fu molto bassa: uno solo su 277 tentativi.

Da allora le ricerche si sono concentrate sugli aspetti che governano questo processo, nella speranza di controllarlo sempre meglio e di rendere la clonazione sicura e affidabile. Intanto, dal 2000 in poi, la lista delle specie clonate si è allungata e oggi comprende macachi, topi, mucche, gatti, cavalli e cammelli

Fin dall’inizio, c’è stato chi ha pensato di applicare tali tecniche anche alla specie umana, non come clonazione terapeutica ma per la riproduzione. Ma finora, nonostante gli annunci, non c’è alcuna prova che tale esperimento sia stato portato a termine; molti Stati vietano questo tipo di ricerche per le loro implicazioni morali.

Figura 7
Figura 7openIl famoso caso di Dolly Il primo mammifero clonato fu una pecora chiamata Dolly (a sinistra nella foto), che una volta cresciuta si è riprodotta dando alla luce un agnello «normale» (a destra).

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La clonazione permette di ottenere molte copie di un certo gene

Uno degli scopi della tecnologia del DNA ricombinante è la clonazione (cioè la produzione in molte copie) di un particolare gene allo scopo di poterlo analizzare o per poter ottenere grosse quantità del suo prodotto proteico.

In quest’ultimo caso, il DNA ricombinante deve essere inserito, o trasfettato, in cellule ospiti che in seguito a tale modifica sono chiamate transgeniche. Perché il tentativo riesca è importante la scelta della cellula ospite, che può essere procariotica oppure eucariotica.

Una volta scelta la specie ospite, il DNA ricombinante viene messo a contatto con una popolazione di cellule ospiti e, in condizioni opportune, penetra in alcune di esse. Dal momento che tutte le cellule ospiti (non solo quelle in cui è penetrato DNA ricombinante) si moltiplicano, il ricercatore deve poter stabilire quali contengono effettivamente la sequenza da clonare. Un metodo comune per riconoscere le cellule contenenti DNA ricombinante è quello di contrassegnare la sequenza inserita con geni reporter, cioè geni di cui è facile osservare il fenotipo e che quindi servono da marcatori genetici per la sequenza di interesse.


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L’inserimento di geni può avvenire in cellule procariotiche oppure eucariotiche

I primi successi ottenuti con la tecnologia del DNA ricombinante furono raggiunti usando come ospiti i batteri. Infatti, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, le cellule batteriche sono facili da coltivare e maneggiare in laboratorio. Inoltre, la biologia molecolare dei procarioti, soprattutto di alcuni batteri ben studiati come E. coli, è ampiamente nota ed esistono numerosi marcatori genetici utilizzabili per riconoscere le cellule che ospitano il DNA ricombinante. In più, i batteri contengono plasmidi, piccoli cromosomi circolari facilmente manipolabili per trasportare il DNA ricombinante dentro la cellula.

Tuttavia, i batteri non sono gli organismi ideali per lo studio e l’espressione dei geni eucariotici. Basta pensare a quanto sono diversi i genomi e i processi di trascrizione e traduzione nei procarioti e negli eucarioti (▶tabella 1), oppure al fatto che tali funzioni sono spesso regolate da segnali contenuti nel DNA stesso; i batteri, per esempio, sono privi del macchinario necessario per l’asportazione degli introni dall’RNA trascritto da un gene eucariotico. Ricorda poi che molte proteine eucariotiche, dopo il processo di traduzione, vengono chimicamente modificate, e che spesso queste modifiche sono indispensabili al corretto funzionamento della proteina.

Quando si vuole ottenere l’espressione di un nuovo gene in un eucariote, ossia quando si vuole ottenere un organismo transgenico, è meglio scegliere un ospite eucariotico, come una drosofila, un topo, una pianta o un lievito.

Gli ospiti eucariotici più usati negli studi sul DNA ricombinante sono i lieviti come Saccharomyces cerevisiae. I vantaggi di usare i lieviti comprendono la rapidità della divisione cellulare (tutto il ciclo si completa in poche ore), la facilità di coltivazione in laboratorio e le dimensioni relativamente ridotte del genoma (circa 12 milioni di coppie di basi e 6000 geni). I lieviti inoltre possiedono molte delle caratteristiche fondamentali comuni a tutti gli eucarioti, salvo quelle implicate nella condizione pluricellulare.

A volte anche i lieviti sono inadatti allo scopo: è il caso della produzione di alcune proteine umane che, dopo il processo di traduzione, devono essere chimicamente modificate per poter funzionare. Poiché i lieviti non possono apportare le modifiche necessarie, il gene viene trasferito in un genoma animale o vegetale. Quale che sia l’ospite scelto, per trasportare il DNA al suo interno è necessario un vettore.

Tabella 1 I genomi di batterio e lievito a confronto.
Escherichia coliSaccharomyces cerevisiae
Dimensioni del genoma (paia di basi) 4 640 000 12 068 000
Numero di geni che codificano per proteine 4300 5800
Proteine coinvolte nel:
metabolismo 650 650
produzione/accumulo di energia 240 175
trasporto transmembrana 280 250
duplicazione, riparazione, ricombinazione del DNA 120 175
trascrizione 230 400
traduzione 180 350
marcatura/secrezione di proteine 35 430
struttura cellulare 180 250
open

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I vettori introducono nuovo DNA nelle cellule ospiti

Quando si inserisce nuovo DNA all’interno di una cellula, la sfida non consiste tanto nel farlo entrare nella cellula ospite, quanto nel far sì che il DNA estraneo si duplichi quando la cellula si divide: infatti la DNA polimerasi, l’enzima che catalizza la duplicazione del DNA, non si lega a qualsiasi sequenza di DNA. Per potersi duplicare, il nuovo DNA deve entrare a far parte di un replicone, cioè di un segmento di DNA che contenga un’origine della duplicazione.

In linea di massima, un frammento di DNA appena inserito si può integrare in un replicone in due modi.

  • Dopo essere penetrato nella cellula, il frammento si può inserire in un cromosoma ospite in prossimità di un sito di origine della duplicazione. Un inserimento di questo tipo, pur essendo un evento casuale, è un metodo utilizzato spesso per integrare un nuovo gene in una cellula ospite.
  • Il frammento di DNA può entrare nella cellula ospite come parte integrante di una sequenza di DNA trasportatrice (un vettore) che possiede già un’origine della duplicazione adatta.

Per essere efficace, un vettore deve avere quattro caratteristiche fondamentali:

  1. essere capace di duplicarsi in modo indipendente nella cellula ospite;
  2. possedere una sequenza di riconoscimento per un enzima di restrizione che lo possa tagliare e combinare con il nuovo DNA;
  3. contenere un gene reporter che ne segnali la presenza nella cellula ospite;
  4. avere dimensioni minori dei cromosomi dell’ospite.

I vettori che rispondono a questi requisiti sono diversi e comprendono plasmidi, virus e cromosomi artificiali.

  • I plasmidi (▶figura 8A) hanno piccole dimensioni (un plasmide di E. coli è costituito da 2000-6000 coppie di basi, mentre il cromosoma principale ne contiene oltre 4,6 milioni) e spesso contengono un’unica sequenza di riconoscimento per un dato enzima di restrizione. Per questo un plasmide tagliato con un enzima di restrizione si trasforma in una molecola lineare provvista di estremità coesive, che si possono appaiare con le estremità coesive di un altro frammento di DNA. Altre due caratteristiche rendono i plasmidi ottimi vettori: come abbiamo già visto, molti plasmidi contengono geni che conferiscono resistenza agli antibiotici, che possono funzionare da geni reporter; inoltre, i plasmidi possiedono un’origine della duplicazione (ori) e possono duplicarsi indipendentemente dal cromosoma della cellula ospite. I plasmidi tuttavia sono ottimi vettori solo per geni di piccole dimensioni; essi infatti sono troppo piccoli per accogliere l’inserzione di frammenti molto grandi di DNA. Perciò non possono essere usati come vettori per la maggior parte dei geni eucariotici.
  • I virus vengono frequentemente usati come vettori per i geni eucariotici e procariotici. Dal momento che per un virus infettare le cellule è un fatto naturale, i virus presentano un grande vantaggio rispetto ai plasmidi: non richiedono particolari artifici per essere indotti a penetrare nelle cellule ospiti.
  • I cromosomi artificiali di lievito (Yeast Artificial Chromosome, YAC; ▶figura 8B) sono cromosomi «minimi» creati in laboratorio per risolvere un problema che spesso si riscontra con i plasmidi: il DNA eucariotico utilizza un’origine della duplicazione differente da quella del DNA procariotico. Un cromosoma minimo è una molecola di DNA che contiene non soltanto l’origine della duplicazione del lievito, ma anche le sequenze del centromero e del telomero, il che la rende un vero e proprio cromosoma eucariotico. Contiene, inoltre, siti di restrizione e geni reporter (legati a particolari esigenze nutritive del lievito) sintetizzati artificialmente. Pur comprendendo soltanto 10000 coppie di basi circa, i cromosomi artificiali possono accogliere l’inserimento di segmenti lunghi da 50000 fino a 1,5 milioni di coppie di basi. All’interno di cellule di lievito, questi cromosomi artificiali effettuano normalmente la duplicazione del DNA e l’espressione genica tipiche degli eucarioti.
Figura 8
Figura 8openVettori per il trasporto di DNA all’interno di cellule (A) Un plasmide contenente geni reporter per la resistenza a specifici antibiotici può essere incorporato in una cellula di E. coli. (B) Una molecola di DNA sintetizzata in laboratorio diventa un cromosoma artificiale che può trasportare in cellule di lievito il frammento di DNA inserito.

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