Unità Aristotele

Lezione Il mondo estetico, etico e politico

L’etica e la filosofia morale

Le nozioni di verosimiglianza, probabilità, possibilità, proporzionalità e credibilità, sostenute dalla forma logica dei sillogismi dialettici, stabiliscono relazioni strutturali tra il mondo estetico e il mondo etico, cioè il “sapere pratico” in senso proprio.

Per Aristotele – in modo simile al pensiero socratico-platonico – il sapere pratico, volto a esaminare la condotta individuale e sociale dell’uomo, si configura come la conoscenza dei fini dell’agire, nella misura in cui essi sono derivati dall’ideale che si assume come proprio dell’uomo, vale a dire dalla sua essenza o natura necessaria e immutabile. Non fa differenza che questi fini, corrispondenti al “bene”, siano considerati come trascendenti o immanenti: ciò che importa è che essi vengano intesi come valori in sé, dotati di una propria oggettività, realtà e perfezione e, come tali, siano indipendenti dagli atti (volontà, impulsi, desideri) rivolti a essi. In contrasto con quest’etica del fine, abbiamo visto che nel mondo culturale dei greci – e soprattutto presso alcuni sofisti (Prodico, Protagora) – è già presente un’etica che va alla ricerca dei motivi, cioè delle cause e delle forze che determinano la condotta, la quale risulta così vincolata agli atti e agli interessi particolari dell’esperienza umana. In questo caso, il bene non si presenta come un valore in sé, ma dipende dal movente dell’azione (utilità, vantaggio, piacere ecc.). Quest’ultimo non indica pertanto un dover-essere, ma solo un rapporto ipotetico-condizionale tra lo scopo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento (per esempio: «se vuoi ottenere vantaggi da x, onora x») 5.

Aristotele indica in generale il sapere pratico con il termine “politica”. Questa, a sua volta, si qualifica da una parte come etica o scienza del bene e, dall’altra, come politica in senso stretto o teoria dello Stato. In tale prospettiva, possiamo dire che l’etica aristotelica è subordinata alla politica, sebbene intesa in senso lato. Ciò dipende sempre dal fatto – peraltro tipico di tutto il pensiero classico – che non è possibile intendere l’uomo se non come cittadino. Il sapere pratico o politico deve quindi individuare il fine proprio dell’agire umano (il “bene in sé”) e i mezzi, sempre legati alla natura umana, per conseguirlo 6.

Ora, il fine ultimo o supremo dell’agire è per Aristotele la felicità (eudaimonía). Tutti gli uomini tendono alla felicità, ma non tutti sono d’accordo nello stabilire che cosa sia la felicità. Essa non può però identificarsi con il piacere, l’onore o la ricchezza, perché questi sono beni instabili, accidentali, i quali appaiono più come mezzi che come fini. Sebbene non vadano respinti, ma accolti e perseguiti nella giusta misura, essi devono in ogni caso dipendere da un fine superiore che sia intrinsecamente connesso alla natura umana, vale a dire – come la logica e la metafisica ci insegnano – alla ragione. La virtù propria dell’uomo è dunque “vivere secondo ragione”, e questo corrisponde precisamente alla gerarchia delle capacità che emergono dalla tripartizione dell’anima.

Posto infatti che l’anima vegetativa non rappresenti alcuna capacità peculiare dell’uomo e debba quindi essere esclusa da ogni considerazione etica, il discorso cambia del tutto per l’anima sensitiva e, in modo ancora più netto, per l’anima razionale. Nella trattazione della psicologia, abbiamo visto che sensibilità e intelletto concorrono insieme – sebbene con modalità distinte – alla costituzione della conoscenza, la quale non è altro che applicazione della ragione. È quindi lecito attendersi che il discorso etico riguardi entrambe le dimensioni psichiche. Tale “differenza” psichica corrisponde, sul piano della ragione pratica, a quella molteplicità dei significati dell’essere che abbiamo visto dispiegarsi sul piano della ragione teoretica.

In altri termini, anche la nozione di bene non è univoca, ma ha diversi significati: in particolare assume un significato differente a seconda che essa riguardi i sensi oppure la ragione. Infatti, i sensi danno origine alle azioni attraverso gli impulsi, le tendenze e le passioni, nei confronti dei quali la ragione esercita una funzione di dominio e di moderazione. Di conseguenza, Aristotele chiama (1) virtù etiche le condotte che corrispondono all’applicazione “esterna” della ragione, cioè finalizzata alla regolazione dei processi sensitivi; mentre definisce come (2) virtù dianoetiche le condotte propriamente razionali, corrispondenti all’applicazione “interna” e non sensibile della ragione. Vediamole più in dettaglio.

  1. Virtù etiche. Gli impulsi, le tendenze e i desideri che attraversano la vita umana sono numerosi e potenzialmente infiniti; essi inoltre dipendono dalla cultura, dal costume e dalle inclinazioni personali. Non si può pertanto offrire una scienza che si fondi sul riconoscimento intuitivo e universale dei principi morali che devono guidare la nostra esperienza. In questo caso – nota Aristotele – il bene si riconosce mediante l’educazione e l’induzione, il cui esercizio fa sorgere in noi l’abitudine a compiere buone azioni. Di conseguenza, le virtù etiche (coraggio, temperanza, liberalità, giustizia, e così via) derivano in noi da una pratica acquisita con l’esperienza stessa che è trascinata nel vortice degli impulsi e dei desideri. In questa prospettiva, l’abitudine esprime la capacità di realizzare, volta per volta, un buon costume rispetto ai casi particolari dell’esperienza.

    Ciò comporta che le virtù etiche non si generino in noi per natura, ma siano anzi “disposizioni”, ovvero capacità di indirizzare le passioni (desiderio, ira, amicizia, pietà) ai fini voluti e di risolverle, caso per caso, nel bene. Ora, il problema non è solo come acquistiamo queste virtù, ma in che cosa esse consistano. Le virtù etiche implicano la giusta proporzione tra l’eccesso e il difetto, ossia il giusto mezzo rispetto a sentimenti, passioni e azioni. Il “giusto mezzo” esprime l’affermazione etica della ragione. Per esempio, il coraggio è il giusto mezzo tra temerarietà e viltà; la temperanza è il giusto mezzo tra l’intemperanza e la dissolutezza.

    Si noti che simili virtù non sono valide sempre e ovunque, ma hanno come unica norma la “misura”. Tra di esse prevale la giustizia, che esprime il rispetto per le leggi dello Stato e copre l’intera area della vita morale. «Nella giustizia – dice Aristotele – è insieme compresa ogni virtù».

    Come tale, essa è la forma delle virtù etiche. Inoltre, la giustizia non sta per sé, ma si determina nell’istituzione giuridica, cioè nel complesso delle leggi (legislazione) che rappresentano la sua “materia”. Essa stabilisce una proporzione tra i membri della società: se la proporzione è geometrica, cioè se distribuisce a ciascuno dei membri rispetto ai suoi meriti in un’uguaglianza di rapporti (la ripartizione è dunque diseguale secondo la validità dei titoli, la dignità del pretendente e la giustificazione della pretesa), siamo di fronte alla giustizia distributiva. Se invece la proporzione è aritmetica, cioè si dà a ciascuno ciò che è dovuto in parti uguali (equidistanza dalla legge: ognuno è valutato per quel che ha fatto, indipendentemente dal suo status), siamo di fronte alla giustizia retributiva, detta anche “regolatrice” o “correttiva”. Naturalmente, sia la giustizia distributiva sia quella retributivo-correttiva possono contenere norme insufficienti nel caso specifico; esse devono perciò essere ricomprese in una forma di giustizia “superiore” in grado di cogliere, volta per volta, ciò che è equo e conveniente. L’equo è, in un certo senso, la correzione nel caso particolare del giusto legale: ogni legge è infatti universale e non è possibile in universale prescrivere rettamente intorno ad alcune cose o eventi particolari.

  2. Virtù dianoetiche. Mentre le virtù etiche si realizzano mediante la prassi empirica dell’abitudine, le virtù dianoetiche, corrispondenti alla parte razionale dell’anima, sono il frutto dell’esercizio e dell’applicazione del pensiero (diánoia). Tuttavia, il nostro pensiero può rivolgersi sia a oggetti necessari e sottratti al divenire – come le leggi logiche, gli aspetti formali delle cose o la natura divina – sia a oggetti sottoposti al divenire, sui quali possiamo intervenire trasformandoli o, addirittura, producendoli. Alla prima funzione oggettiva del pensiero corrispondono le virtù della ragione teoretica – intelligenza (nóus), scienza (epistéme) e sapienza (sophía) –, alla seconda corrispondono invece le virtù della ragione pratica in senso proprio, cioè in quanto capacità di operare: l’arte (téchne) e soprattutto la saggezza (phrónesis) 7. Si noti che l’aspetto teoretico, pur essendo qualitativamente superiore a quello pratico, è tuttavia ricompreso nella più ampia concezione dell’agire umano come una sua “facoltà”; anch’esso indica quindi un modo di “comportarsi” dell’uomo nei confronti del mondo.

    Se la virtù tipica della ragione teoretica è la sapienza, cioè la capacità di dedurre e giudicare la verità, la virtù che caratterizza la ragione pratica è la invece la saggezza. Essa consiste nel saper deliberare intorno a ciò che è bene o male per l’uomo, indicando i mezzi adeguati per il raggiungimento dei veri fini 8. Si noti che la deliberazione connessa alla saggezza non stabilisce quali siano i fini da raggiungere, ma solo che cosa dobbiamo fare per raggiungerli. Per individuare i giusti fini o per coglierli in modo corretto, sono infatti necessarie le virtù etiche, in grado di considerare i casi particolari e di decidere rispetto a essi. Questa stretta collaborazione tra la saggezza – una virtù dianoetica – e le virtù etiche ci rimanda direttamente alla questione dei fondamenti logici della ragione rivolta all’azione. Per deliberare e scegliere è invero sempre necessario un ragionamento, e ogni ragionamento tende alla conoscenza di una verità.

    Tuttavia, nella filosofia pratica la verità non è fine a sé stessa, ma solo un mezzo in vista dell’azione, che è sempre qualcosa di particolare e contingente. Ne consegue che il sapere legato alla prassi dovrà limitarsi a indicare ciò che è giusto e buono in generale, vale a dire quel “tipo” o schema fondamentale nel quale, perlopiù o verosimilmente, rientra il caso particolare.

    Un siffatto sapere tipologico, che si contrappone al rigore logico dell’epistéme, permette ad Aristotele di superare le difficoltà create dall’intellettualismo etico socratico-platonico, per il quale la conoscenza del bene costituiva la condizione necessaria e sufficiente per fare il bene. Secondo Aristotele, infatti, la conoscenza del bene – non “epistemica” ma, appunto, “tipologica” – è solo la condizione necessaria, benché non sufficiente, per agire in modo buono 9. Finché non intervengono la deliberazione e la scelta, che non sono condizioni di carattere teoretico bensì fronetico (cioè legate alla saggezza), il bene rimane nell’ambito dell’azione possibile (tipico-ideale), ma non si traduce in un’azione reale e concreta. A nulla, dunque, servirebbe conoscere il bene, se poi non si avesse anche la forza di metterlo in pratica 10.

In conclusione, la razionalità tipologico-dialettica che caratterizza la filosofia pratica è una forma di sapere euristico, cioè inventivo e creativo, in cui l’uni­versale non è già dato, ma va cercato per approssimazione a partire dal particolare. Per essere saggi non c’è bisogno di essere filosofi, mentre è necessario – come abbiamo visto – essere temperanti, coraggiosi e liberali; tutti caratteri che si ritrovano, per esempio, nei grandi uomini politici, come Pericle. Questo ci conduce direttamente alla questione “tecnica” della forma dello Stato.


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