Aristotele
Il mondo psichico
La sensazione e l’intelletto
Licenziata mediante brevi osservazioni la questione dell’anima vegetativa, cioè del principio più generale e più elementare della vita che verte intorno al processo di nutrizione come “assimilazione del dissimile”, Aristotele concentra la sua attenzione sulla sensazione e sull’intelletto, che insieme spiegano gran parte delle funzioni conoscitive umane. Sensazione (o sensibilità) e intelletto hanno sia caratteri comuni, sia caratteri specifici e indipendenti. In comune essi hanno il carattere transiente dell’attività psichica, vale a dire il fatto di essere sempre “rivolti a un oggetto”. Un simile rivolgimento è fondamentale per qualificare la stessa attività psichica, poiché questa non dipende solo dalla funzione soggettiva o “facoltà” dell’anima, ma anche dal tipo di oggetto a cui si relaziona. Di conseguenza, ogni funzione ha un oggetto “proprio” che non può essere scambiato con l’oggetto di un’altra funzione.
La transitività dell’anima è il carattere decisivo della psicologia aristotelica, nella misura in cui prefigura quella che, nel pensiero moderno, verrà definita come l’intenzionalità o trascendenza della coscienza: ogni coscienza è, cioè, sempre “coscienza di qualcosa”. Si noti anche che, non esistendo un fondamento della coscienza indipendente dalle attività psichiche che la contraddistinguono, una pura autocoscienza o “riflessione totale” è impossibile, poiché noi siamo solo indirettamente consapevoli di quel che ci accade attraverso le operazioni compiute sugli oggetti, trasformandoli secondo la sensibilità, la volontà e il pensiero. Ciò che possiamo rilevare non è quindi l’autocoscienza, ma la presenza di un operare intelligente. Veniamo ora ai caratteri specifici.
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La sensazione. Per Aristotele non esistono idee o principi innati. Tutto comincia dalla sensazione, che, in quanto percezione attuale, è infallibile. La sensazione non rappresenta una semplice modificazione meccanica indotta dal sensibile (ossia dall’oggetto sentito) nel senziente (ossia nell’organo o nella facoltà sensitiva). Essa non si può nemmeno spiegare come una percezione del simile da parte del simile o del dissimile da parte del dissimile – così come l’avevano precedentemente intesa Empedocle, Anassagora e Democrito. Essa può infatti considerarsi un’alterazione, ma non in senso puramente passivo (meccanico), bensì attivo, ossia come passaggio della facoltà sensitiva dalla potenza all’atto per via di un contatto con l’oggetto sensibile. La sensazione si configura quindi come un processo di assimilazione, vale a dire come un passaggio dal dissimile al simile, per cui ciò che prima era distinto (la facoltà e l’oggetto percepito) diventa ora formalmente simile (ossia la facoltà si “assimila” alla cosa percepita) 6. La differenza con la nutrizione è costituita dal fatto che nella sensazione l’assimilazione non è estesa alla materia, ma riguarda – appunto – solo la forma dell’oggetto percepito. In virtù di quest’assimilazione, ciò che era in potenza nell’oggetto come possibilità di essere percepito, e nella facoltà stessa come possibilità di percepire, trapassa nell’atto, sicché la sensazione appare – in definitiva – come un atto comune del sensibile e del senziente. Quest’atto comune esprime, in forma sintetica, la correlazione tra una realtà fisica e una realtà psicologica le quali, fuori da tale correlazione, rimangono mere potenzialità.
In quanto capace di assimilazione degli stimoli oggettuali, l’anima sensitiva presenta una struttura gerarchizzata. Infatti, oltre ai cinque sensi specifici (vista, gusto, olfatto, udito, tatto), essa comprende anche una sorta di “sesto senso” o senso comune generalizzato, a cui si aggiungono l’immaginazione, la memoria e, infine, una facoltà elementare di riconoscimento o “discriminazione” delle varie sensazioni. Per quanto riguarda i sensi specifici, la loro distinzione è indotta dagli oggetti sensibili “propri”, che modificano un solo senso (per esempio, il colore per la vista), mentre il senso comune è dovuto all’esistenza di sensibili comuni a più sensi, come il movimento, la figura, il volume ecc. Di conseguenza, tranne il tatto – che è in grado di percepire più qualità –, gli altri sensi riguardano solo una qualità o, meglio, una coppia di contrari, ognuno dei quali costituisce una specie di “medietà”, in grado di svolgere una funzione di arbitraggio. Il senso comune, invece, non necessita come gli altri sensi di un proprio organo per sentire, ma si avvale degli altri organi.
La sua importanza consiste nel presentare, già a livello sensibile, una prima ed elementare facoltà di giudizio e di riconoscimento che si collega all’immaginazione (phantasía): quest’ultima mostra infatti, accanto a un aspetto passivo o riproduttivo, una capacità attiva o produttiva che consente di “interpretare” le sensazioni.
Infine, l’anima sensitiva non presiede solo alle facoltà teoretiche della percezione e dell’immaginazione, ma anche a quelle pratiche dell’appetito, del desiderio e del movimento. In particolare, il desiderio tende a configurare intellettualmente l’azione secondo lo schema razionale di un sillogismo pratico. L’azione appare infatti come la conclusione di un processo operativo a partire da premesse che – in modo analogo all’affermazione e alla negazione – si pongono in una condizione desiderativa (positiva) o avversativa (negativa).
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L’intelletto 7. Come si dà un’eccedenza della vita sensitiva rispetto alla vita semplicemente vegetativa, così si dà un’eccedenza della vita intellettiva rispetto alla vita sensitiva, a cui essa è peraltro congiunta tramite l’immaginazione. Questa corrispondenza con la sensibilità si ha anche per quanto riguarda il rapporto con l’oggetto: l’intelletto è assimilativo, ovvero ricettivo della forma intelligibile, indipendentemente dalla quale non è nulla. Tuttavia l’intelletto, come puro atto del pensare, indica una facoltà immateriale che non abbisogna – come la sensibilità – di un suo organo percettivo per conoscere, né di alcun diretto “contatto” con gli oggetti.
Per spiegare la conoscenza intellettuale senza contatto con l’oggetto né supporto “materiale” esterno, Aristotele ricorre, ancora una volta, alla dottrina della potenza e dell’atto. Prima di conoscere, l’intelletto è in potenza le forme ancora incluse nel sensibile, così come una tavoletta di cera contiene potenzialmente ciò che deve esservi scritto; solo quando perverrà a possederle in atto esso conoscerà tanto il sensibile (essendo il superiore inclusivo anche dell’inferiore) quanto le forme intelligibili. Ora, che cosa consente il passaggio dall’intelletto in potenza alla conoscenza effettivamente in atto? Lo schema che applica Aristotele è sempre il medesimo: ciò che è potenziale diventa attuale per via di qualcosa che è già in atto; per esempio, un seme diventa pianta solo se sono in atto le condizioni (sostanze nutritive, clima ecc.) che ne permettono lo sviluppo.
Da qui la fondamentale distinzione – frutto di infinite discussioni tra gli interpreti – tra l’intelletto attivo o “produttivo” e l’intelletto passivo: il primo identificato con la forma e la causa efficiente che, come la luce per gli oggetti visibili, traduce in atto il conoscibile; il secondo assimilato invece alla “materia” del conoscibile, nella sua “disposizione” a diventare tutte le cose 8.
Le caratteristiche che Aristotele attribuisce all’intelletto attivo – in particolare la separatezza, l’impassibilità e la pura attualità – hanno fatto pensare a una sua identificazione con il principio divino nell’uomo. Ora, ciò può valere solo nella misura in cui anche il divino non è per Aristotele completamente separato dal mondo e dalla sensibilità, ma è anzi unito a essi da un rapporto paronimico di “riferimento a uno”, al tempo stesso immanente e trascendente. D’altra parte, bisogna tener presente che il compito dell’intelletto attivo non è quello di creare ex nihilo le forme intelligibili, bensì quello di attualizzare le forme che provengono dal sensibile tramite l’immaginazione. Infatti, l’attività intellettiva, pur distinguendosi in due gradi – uno di tipo intuitivo, infallibile, e uno di tipo discorsivo, fallibile –, opera sempre in presenza di immagini, e non può quindi mai prescindere dal riferimento al sensibile.
In conclusione, poiché la conoscenza intellettuale “attualizza” ciò che è già contenuto in potenza nel sensibile, in Aristotele troviamo prefigurata – anche se non conseguentemente sviluppata – una dottrina delle forme pure della sensibilità che rifiuta qualsiasi genere di conoscenza a priori, ma non per questo si affida a una mera ricognizione empirica a posteriori, destinata per la sua stessa natura a non condurre mai all’universalità dei concetti.
Potremmo anzi dire che la concezione aristotelica delle forme sensibili testimonia non solo la presenza di un momento intellettuale-intuitivo (“noetico”) fin nelle più riposte radici dell’esperienza, ma che l’intelletto stesso – come afferma Aristotele – opera a somiglianza dell’arte nei confronti della materia, cioè non come semplice “estrazione” formale, ma come un’autentica produzione, in cui è l’oggetto, in quanto scopo dell’azione, a dettare l’estensione e i confini del suo significato per la conoscenza. La ricezione delle forme non va dunque intesa, empiristicamente, come una mera “passività”, né l’attualizzazione costituisce, idealisticamente, un’attività originaria, come se l’intelletto attivo fosse una sorta di intelletto archetipo, cioè “creatore”.
Per Aristotele, la forma è sempre l’attributo di una sostanza e, nella fattispecie, una proprietà fisica di un oggetto reale. Tuttavia, se non viene sottoposta a un’attualizzazione, ossia inserita in un rapporto funzionale con l’anima, dal punto di vista conoscitivo essa rimane sempre potenziale, vale a dire inespressa e senza significato.
L’unità psicofisica dell’essere vivente, così delineata da Aristotele, richiede dunque una concezione dinamica e relazionale dell’essere 9. Tuttavia – a differenza di Platone – tale relazionalità è ottenuta per via esclusivamente logico-apofantica, cioè attraverso una dimensione fondamentalmente statica, essenzialistica, non sempre in grado – tanto nell’ontologia quanto nella psicologia – di ricomporre quel dualismo che continuamente riaffiora tra termini per definizione contrapposti, come intelletto e sensibilità, materia e forma, Dio e mondo, potenza e atto.